venerdì 30 dicembre 2016

L'angolo della Fede




Per l'angolo della Fede voglio far ascoltare altre meditazioni audio che avevo lasciato in sospeso, sono ancora quattro omelie di don Leonardo Maria Pompei e l'ultima di padre Giorgio Maria Farè.



Il 1° contributo audio si intitola: 

Crisi del sacerdozio e dell'eucaristia
di don Leonardo Maria Pompei



Il 2° contributo audio si intitola
La grande dignita del sacerdozio
di don Leonardo Maria Pompei



Il 3° contributo audio si intitola
Preghiera e umiltà
di don Leonardo Maria Pompei



Il 4° contributo audio si intitola
Liturgia e abusi
di don Leonardo Maria Pompei



Il 5° contributo audio si intitola
Avete fatto della casa di Dio un covo di ladri
di padre Giorgio Maria Farè



martedì 27 dicembre 2016

Teologi e secolarizzazione




Quello che segue è un articolo, quasi un breve saggio, che vale la pena leggere e meditare,  tratta del modo e del perché la  società  europea ma anche italiana si sia trasformata, secolarizzandosi, abbandonando cioè quelle basi che avevano caratterizzato i costumi, la cultura, le tradizioni che si imperniavano sulla centralità della fede e del sacro nella vita. La secolarizzazione è il profano che scaccia il sacro dalla vita. In questo articolo l'autore Francesco Lamendola avanza la tesi  - condivisibile -  che al raggiungimento della secolarizzazione della società abbiano contribuito non poco teologi e intellettuali cattolici, il che, sembrerebbe una contraddizione, pensare cioè che il pensiero cattolico possa generare il secolarismo, ma così è avvenuto e l'autore porta (purtroppo) degli esempi eclatanti come il voto cattolico a favore dell'aborto.


Teologi e secolarizzazione

È dai teologi “cattolici” che la secolarizzazione ha ricevuto l’ultimo suggello

di Francesco Lamendola - www.ilcorrieredelleregioni.it

La secolarizzazione è quel processo storico per cui la società europea ha sottratto spazi sempre più ampi alla sfera del sacro e li ha trasferiti a quella del profano; il secolarismo è l’esito estremo della secolarizzazione, per cui la società avoca a sé tutta la sfera del reale e, così facendo, direttamente o indirettamente, volutamente oppure no, nega e sopprime ogni realtà sacra. Di fatto, non è possibile stabilire un confine chiaro e riconoscibile fra la secolarizzazione e il secolarismo. Anche se ai cattolici progressisti piace credere che lo sia, perché questo permette loro di riconoscere i lati positivi della secolarizzazione, ad esempio – dicono – il pieno riconoscimento di una vera autonomia della sfera terrena rispetto alla vita soprannaturale; e non si rendono conto, così facendo, di dire un autentico sproposito, perché tale pretesa autonomia altro non è che la maschera di cui si serve la cultura laicista e materialista per scardinare in maniera dolce, e quasi rispettosa, la concezione e la pratica religiosa della vita, visto che in Dio, e solamente in Dio, le cose trovano il loro autentico compimento e che in Dio, e solamente in Dio, l’uomo si realizza come uomo. Opinare diversamente significa essere già all’interno del modo di ragionare secolarizzato: significa, in altre parole, che il cattolico ha già smesso di essere intimamente tale, e ha fatto proprie le categorie della civiltà moderna: che è, nella sua essenza, e non per caso, ma intenzionalmente, radicalmente irreligiosa e anticristiana. Sia come sia, il secolarismo non è che la fase finale, e perfettamente logica e conseguente, della secolarizzazione, nella quale noi siamo immersi: il fatto che molti cattolici non se ne rendano conto, non lo percepiscano, e continuino a parlare con disinvoltura degli aspetti “postivi” della secolarizzazione, e dell’importanza di seguitare il “dialogo” col mondo, dà un’idea di quanto il processo si sia spinto innanzi e di come esso sia penetrato nel comune sentire di quasi tutte le persone, cattolici compresi. Un solo esempio renderà chiaramente quel che vogliamo dire. I cattolici italiani, nel 1974 - o almeno, moltissimi di loro - scelsero di votare a favore del mantenimento della legge sul divorzio, e non ci videro nulla di strano, non percepirono alcuna sostanziale contraddizione fra il loro credo religioso e la scelta che avevano operato nelle urne, di fronte al referendum abrogativo. E la cosa si ripeté su un tema ancor più scottante e delicato, e ancora più drammatico sul piano della morale cattolica (a nostro parere, anche sul piano della morale naturale), nel 1978, allorché si trattò di esprimersi a proposito della legge sul diritto di abortire volontariamente. Di nuovo, essi fecero una scelta radicalmente difforme, per non dire opposta, al loro credo religioso; e, di nuovo, non ci trovarono nulla di strano, nulla che li mettesse moralmente o intellettualmente a disagio; al contrario, molti di essi si dichiararono fieri di essere dei cattolici, sì, ma dei cattolici laici, cioè, secondo loro, pienamente inseriti nella realtà di questo mondo, e senza alcun complesso di soggezione verso il magistero della Chiesa. Senza rendersi conto, evidentemente, che, così facendo e così pensando, si ponevano, da se stessi, al di fuori della religione cattolica, oltre che al di fuori della Chiesa. Né furono sfiorati dal dubbio d’aver commesso un peccato gravissimo; rivendicarono con una sorta di fierezza la loro scelta, una scelta di “libertà” per la donna (che cavalleresco sentimento!; peccato che nessuno di loro si preoccupò del diritto del nascituro di venire al mondo), ma si sentirono orgogliosi di poter reggere il confronto con gli italiani laici e non religiosi: provarono perfino un senso di liberazione nei confronti dell’autorità (psicanalisti, sbizzarritevi), perché finalmente avevano reciso il cordone ombelicale che li legava al papa. Quel cordone ombelicale era rappresentato dal Magistero ecclesiastico, e, nel caso specifico, dalla recente enciclica di Paolo VI Humanae vitae, del 1968: la quale, infatti, sin dal primo momento suscitò un aspro dibattito e venne criticata e osteggiata perfino da una parte del clero e dei vescovi, secondo i quali non teneva sufficientemente conto della necessità di dialogare con la società moderna e non valutava in maniera realistica i sentimenti diffusi tra un grandissimo numero di famiglie cattoliche. Strano modo di ragionare! In base ad esso, il Magistero non dovrebbe insegnare, o meglio, tramandare, la dottrina cattolica, così come ci è stata consegnata dalla Rivelazione, attraverso le due fonti della Scrittura e della Tradizione, bensì dovrebbe tener conto degli umori e delle abitudini della società nel suo complesso: quasi che i cattolici, invece di seguire il proprio modello, che è Cristo, debbano per forza allinearsi a ciò che sente e pensa il “mondo”, adeguandosi, in un certo senso, al volere della maggioranza. Dunque, la secolarizzazione è avvenuta non contro i cattolici, ma con l’avallo e la partecipazione dei cattolici - clero compreso -, o, almeno, di una parte significativa di essi. Il Magistero, fino agli anni del Concilio Vaticano II, era rimasto fedele alla sua missione e al suo dovere: tramandare fedelmente l’insegnamento di Cristo, senza cedere alla facile tentazione di fare degli “sconti” ai gusti e alle sensibilità del mondo moderno, semplicemente perché il “deposito della fede” non è, in alcun modo, materia negoziabile. Poi, a partire dal Concilio, e soprattutto negli anni successivi, la diga si è sgretolata, è crollata, e sono stati gli stessi teologi cattolici, o sedicenti tali, a dare il suggello definitivo al processo di secolarizzazione, spingendolo ancora più in là di quanto non avessero già fatto, per loro conto, la cultura profana e la società del benessere: fino al limite estremo del rifiuto di Dio e della Rivelazione cristiana, e ciò proprio da parte dei “credenti” e proprio in nome – mirabile dictu! – di Dio: un Dio che non vuole più vederci credere in Lui ingenuamente, come bambini (ma Gesù non aveva detto che bisogna essere simili proprio a dei bambini, per entrare nel regno dei cieli?), bensì da persone adulte, che sanno fare a meno di Lui, perché si assumono in prima persona la responsabilità di se stesse, e, già che ci sono, anche quella del mondo intero, politica, economia ed equilibri ecologici compresi. Osservava Battista Mondin nel saggio: La secolarizzazione: morte di Dio? (Torino, Borla, 1969, pp. 35-38):

Le tappe più significative della "Secolarizzazione Parziale" sono le seguenti. Anzitutto, già nel secolo tredicesimo, la sostituzione della visione filosofica sacralizzante di Platone con quella secolarizzante di Aristotele. [...] Altre tappe importanti sono state la secolarizzazione del potere politico con il sorgere, già nel secolo quindicesimo, degli Stati nazionali; ulteriore secolarizzazione delle realtà terrestri col sorgere della scienza sperimentale; secolarizzazione delle classi sociali con la Rivoluzione francese; secolarizzazione di tutti i rami della cultura (storia, pedagogia, antropologia, lettere, arti) nel secolo diciannovesimo. Può essere interessante osservare che la secolarizzazione, nella sua avanzata, s’è sempre trovata la strada sbarrata e non è mai riuscita a trionfare a nessun livello senza aspre lotte [...] La Chiesa si adattò faticosamente al nuovo stato di cose. Solo nel Concilio Vaticano II riconobbe ufficialmente la legittimità di una secolarizzazione parziale. La "Secolarizzazione Totale" si è sviluppata in due tempi: nel primo per opera dei filosofi, degli uomini politici e degli scienziati; nel secondo per opera dei teologi. I primi assertori della secolarizzazione totale sono stati alcuni eminenti filosofi del secolo scorso: Feuerbach, Comte, Marx, Nietzsche, Freud. Essi non si accontentano più di affermare l’autonomia di questa o di quella sfera della realtà, di questa o quella attività dell’uomo, ma pretendono la completa eliminazione del sacro, che considerano come un’ipostatizzazione dei bisogni e delle perfezioni dell’uomo o della società, o come una sublimazione degli istinti sessuali, o come una sovrastruttura al servizio delle classi dominanti o del gregge dei vili. La tesi dei filosofi incontrò immediatamente il favore degli uomini politici, i quali contribuirono alla secolarizzazione totale con la soppressione delle congregazioni religiose e delle scuole confessionali, con l’incameramento dei beni ecclesiastici e la persecuzione della Chiesa. All’avvento della secolarizzazione totale collaborarono anche gli scienziati del secolo scorso negando la presenza di un’anima spirituale nell’uomo e l’esistenza di un Essere supremo nell’universo. Al trionfo completo della secolarizzazione mancava solamente l’adesione dei teologi. Essi, però, nel secolo diciannovesimo, e nella prima metà del ventesimo, opposero strenua resistenza al movimento di secolarizzazione completa. Ma recentemente abbiamo visto un gruppo influente di teologi, chiamati "teologi della morte di Dio" o "teologi radicali", o, anche, “atei cristiani”, dare la loro adesione alla forma più assoluta di secolarizzazione. Essi affermano che non basta riconoscere l’autonomia del profano, ma occorre ridurre tutto il sacro al profano; non basta dare a Cesare quello che è di Cesare, ma bisogna affidargli anche le cose di Dio e Dio stesso; “la casa di Dio non è la Chiesa, è il mondo”; “funzione della Chiesa è di servire il mondo e non Dio”; bisogna, perciò, smantellare non solo i bastioni che dividono il sacri dal profano, ma anche sottomettere tutto il territorio del sacro al profano; occorre far sparire tutte le strutture religiose, tutto l’apparato liturgico e teologico, per fare spazio esclusivamente alla realtà mondana. Il vangelo della secolarizzazione radicale ha trovato immediatamente numerosi apostoli ovunque, anche fra i teologi cattolici, specialmente fra i seguaci dell’evoluzionismo cristocentrico di Teilhard de Chardin e dell’antropocentrismo teologico di Karl Rahner. La secolarizzazione assoluta è ormai penetrata dappertutto: in teologia con le dottrine del cristianesimo anonimo e del fisicalismo teologico; in morale con la riduzione del’etica cristiana all’amore del prossimo; in liturgia con la riduzione della Messa ad una cena di lavoro pseudo-teologico; in ascetica con la soppressione della virtù della penitenza, della mortificazione, del sacrificio. Ora si può dire che il fenomeno della secolarizzazione ha toccato il tetto; più in là di così non si può andare, perché il profano ha divorato tutto il sacro in tutte le cose e in tutte le dimensioni. La secolarizzazione ha toccato l’ultimo traguardo. D’ora in avanti non potrà che segnare il passo oppure dovrà fare marcia indietro.

Povero Battista Mondin: come si sbagliava! Più in là di così si poteva andare, eccome: sia sul piano della gerarchia, sia su quello della liturgia, della catechesi, della pastorale e della stessa dogmatica. Eppure, essendo morto nel 2015, anche lui ha fatto in tempo a vedere quanto tale profezia fosse sbagliata: oggi, infatti, non solo vediamo dei vescovi che ordinano sacerdoti omosessuali, altri che “aprono” su aborto ed eutanasia; un papa che sminuisce la gravità dell’aborto e del divorzio, che si reca dai protestanti a celebrare i 500 anni della loro riforma, che complimenta ed esalta i campioni radicali del divorzio, dell’aborto, dell’eutanasia, delle unioni civili, dei matrimoni omosessuali e della libera droga; e un esercito di sacerdoti che celebra delle messe da discoteca, con burattini, chitarre, aperitivi e pagliacciate varie, e che, nelle prediche, dal pulpito, parlano male della Chiesa, del papa (quando si chiama Benedetto XVI), disprezzano il culto dei santi, sminuiscono quello della Vergine, deridono le apparizioni mariane, i pellegrinaggi e ogni forma di pietà popolare, ignorano l’anima, il peccato, la grazia, la vita eterna, non parlano affatto dell’inferno, del male e del diavolo, anche perché non ci credono, e sanno solo riempirsi la bocca con la misericordia di Dio, come se essa potesse colmare l’indifferenza e la cattiveria dell’uomo, il suo rifiuto di convertirsi, la sua indisponibilità a chieder perdono dei suoi peccati. E ancora: ci tocca vedere frati e suore che ballano in strada al ritmo di danze moderne (oh, ma sempre in nome dello Spirito Santo, e per edificazione dei fedeli!); e assistere a delle messe concelebrate con gli islamici, che pregano il loro Dio nelle nostre chiese, e questo mentre è in corso una spietata guerra contro i cristiani, e i preti cattolici vengono sgozzati sull’altare; e sentire il papa che inveisce contro il clericalismo, come se proprio quello, oggi, nella società secolarizzata, fosse il problema, come se quello fosse il grave pericolo da cui è necessario guardarsi. E non basta: alla secolarizzazione non c’è fine; e se pare che sia giunta al limite, eccola fare un altro passo avanti (o in basso): con la benedizione dei teologi cattolici. E dunque, non sarà tempo di rivedere radicalmente le premesse, e riconoscere la radice dell’errore proprio nella rivoluzione antropologica di Karl Rahner, tanto celebrata dai teologi progressisti? E ricordare che la Chiesa non deve adattarsi al mondo, ma esortarlo a convertirsi al Vangelo di Gesù?


lunedì 26 dicembre 2016

Verità relative e Verità assoluta





"Nel vasto oceano viaggia una piccola barca sballottata dalle onde...", ...quante metafore si potrebbero trarre da questo breve Incipit con cui inizio questo Post; la prima che mi sovviene e che voglio sottolineare è che quella barca sono io, siamo noi uomini, nel mare in tempesta della vita e siamo su quella barca alla ricerca della... Verità.  Definire e identificare cosa sia la Verità e di cosa si stia parlando è cosa quanto mai ardua e complicata: ne hanno parlato e straparlato filosofi e teologi, dotti e ignoranti in tutte le epoche, e ancora adesso non si è trovato il bandolo di questo groviglio; anche un recente Papa ne ha scritto nella Lettera Enciclica "Fides et Ratio" che così inizia:

"La fede e la ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano s'innalza verso la contemplazione della verità. E' Dio ad aver posto nel cuore dell'uomo il desiderio di conoscere la verità e, in definitiva, di conoscere Lui perché, conoscendolo e amandolo, possa giungere anche alla piena verità su se stesso".

La Verità: chi la proclama, chi la falsifica, chi la banalizza, chi la manipola, chi la nega; Gilbert Keith Chesterton nel suo libro: "Eretici", Lindau, Torino, 2010, pp. 242-243 (originale del 1905), profeticamente riguardo alla Verità scrisse:

«La grande marcia della distruzione intellettuale proseguirà. Tutto sarà negato. Tutto diventerà un credo. Sarà una posizione ragionevole negare le pietre della strada; diventerà un dogma religioso riaffermarle. E una tesi razionale quella che ci vuole tutti immersi in un sogno; sarà una forma assennata di misticismo asserire che siamo tutti svegli. Fuochi verranno attizzati per testimoniare che due più due fa quattro. Spade saranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate. Noi ci ritroveremo a difendere, non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Combatteremo per i prodigi visibili come se fossero invisibili. Guarderemo l’erba e i cieli impossibili con uno strano coraggio. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto. S’avvicina il tempo – e per alcuni è già venuto – in cui una vita normale, una vita da onest’uomo, richiederà sforzi da eroe. Quale supremo dono della vita attraverso la morte è quest’obbligo di essere eroi soltanto per esistere, per restare fedeli a una banale linea di vita, che i nostri antenati seguivano così naturalmente come respiravano!»

Ma il mio prologo vuole introdurre un articolo che tratta della Verità per definirla rispetto a due categorie: l'assoluto e il relativo:

Il vero contro il relativismo

Dobbiamo ritrovare il concetto e il criterio del vero per uscire dalla palude del relativismo

di Francesco Lamendola  -  www.ilcorrieredelleregioni.it

Come figli di quella civiltà moderna di cui andiamo così scioccamente fieri, ma che dovremmo chiamare, piuttosto, la prima, compiuta anti-civiltà della storia, stiamo sprofondando sempre di più nella palude del relativismo; e, benché vediamo le conseguenze disastrose che ciò comporta, non facciamo nulla per tentar di uscirne, anzi, si direbbe che facciamo di tutto per affondare ulteriormente, come se fossimo afferrati dal demone del cupio dissolvi, da una masochistica, selvaggia euforia di auto-distruzione.  Eppure, la strada per uscire dalla palude c’è, lo sappiamo bene, e sappiamo anche da quale parte dovremmo cercarla: nel ritrovare il concetto e il criterio del vero, perno di ogni certezza, presupposto di ogni sapere, condizione indispensabile per qualsiasi costruzione sociale, politica, economica, culturale, senza di cui nulla si può fare, progettare, costruire, che non sia viziato e minato da una terribile, insuperabile fragilità, da un peccato originale che porterà a cattivo fine qualunque iniziativa, per quanto intrapresa con entusiasmo e generosità. Che cosa sia il vero, lo sapevamo, lo abbiamo sempre saputo, fino a quando la cultura del sospetto, la presunzione del razionalismo, le fumisterie dell’idealismo, le farneticazioni dell’esistenzialismo, e tutti gli altri deliri e sproloqui della modernità, camuffati da profonde esplorazioni e spacciati per sottili ragionamenti, non ci hanno confuso le idee sino al punto da non vedere anche le cose più solide e ovvie, da smarrire anche il puro buon senso: il vero è, per dirla con san Tommaso d’Aquino (che si rifaceva al filosofo egiziano-giudeo Isaac Israeli ben Solomon), adaequatio rei et intellectus, cioè concordanza fra la realtà e il giudizio. Per essere ancora più precisi: il vero consiste nel conformarsi del giudizio (del discorso) alla cosa, e della cosa all’intelletto. In altre parole, i passaggi sono due, come in un movimento di andata e ritorno: il giudizio si pronuncia sulla natura della cosa, e questa trova una rispondenza in ciò che l’intelletto conosce. Per esempio: il mio giudizio afferma che le biglie di vetro che ho qui sul tavolo sono due; e l’intelletto riconosce il concetto di “due”, ossia comprende che cosa significhi il giudizio espresso circa la natura della cosa. Se il giudizio fosse esatto, ma non trovasse rispondenza in ciò che conosce l’intelletto, il vero resterebbe inconoscibile, tagliato fuori dalle nostre capacità di comprensione. Ecco perché si dice che la nostra intelligenza ordinaria è di natura discorsiva: perché non si limita a formulare dei giudizi, per quanto oggettivi e motivati, ma li articola in un discorso che risulta comprensibile all’intelletto. In un certo senso, è la stessa cosa che si verifica con i sensi, ad esempio con il senso della vista: non basta vedere le cose e vederle esattamente, bisogna anche che l‘occhio, e, attraverso di esso, il cervello, le “riconosca (ciò che non si verifica, ad esempi, quando siamo talmente assorti in un pensiero intimo”, da non riconoscere le cose che si stanno intorno, pur avendole davanti agli occhi); altrimenti, noi vedremmo, ma sarebbe come se non vedessimo nulla, perché vedere non è solo posare lo sguardo su un determinato oggetto, ma riconoscere quel che si vede e collocarlo nella propria mappa concettuale. In fondo, si tratta di concetti relativamente semplici: per averli smarriti con tanta facilità bisogna proprio che la cultura moderna abbia dispiegato tutte le sue risorse per confondere le idee più chiare e intorbidare i concetti più trasparenti. Fra le altre cose, gli intellettuali moderni hanno riservato il loro disprezzo per la cultura medioevale, che di tali problemi si era specialmente occupata: come ammettere che si possa imparare qualcosa da quell’età buia e ignorante? Se la filosofia moderna non fosse stata così superba e altezzosa nei confronti di quella medievale, forse non avrebbe smarrito con tanta facilità il concetto e la pratica del vero – e così pure, parallelamente, del giusto, del buono e del bello; le sarebbe stato sufficiente attingere, con umiltà e riconoscenza, alle opere di san Tommaso e degli altri grandi filosofi e teologi del XII, XIII e XIV secolo. Uno dei pensatori medievali che hanno trattato il tema è stato Roberto Grossatesta (1175-1253), che fu vescovo di Lincoln, in Inghilterra, e che fu filosofo, teologo, fisico e matematico, anticipatore di molte scoperte di Ruggero Bacone, nonché statista, che tenne le fila, con alterna fortuna, di una vasta e complicata rete di relazioni fra il papa, il re d’Inghilterra e la nobiltà feudale, denunciando, nel contempo, gli scandali e gli abusi dilaganti nella Curia romana. In un piccolo trattato intitolato De veritate, nel quale egli si rifà soprattutto a sant’Agostino e ad Anselmo d’Aosta, oltre che al Vangelo di Giovanni, egli giunge all’identificazione della Verità con la parola di Dio, e, quindi, ritiene si possa giudicare il grado di verità inerente alle cose riferendolo al grado di fedeltà con cui esse riflettono il progetto originario di Dio su ciascuna di esse. Riportiamo il passaggio iniziale e quello finale del suo ragionamento (da: Roberto Grossatesta, Metafisica della luce. Opuscoli filosofici e scientifici, a cura di Pietro Rossi, Milano, Rusconi Editore, 1986, pp. 213-214 e 228-229):

“Io sono la via, la verità e la vita” (Gv 14, 6). Qui la verità stessa afferma di essere la verità, per cui non senza motivo ci si può domandare se vi sia qualche altra verità o non esista altra verità al di fuori della somma verità. Se infatti non c’è altra verità, allora la verità è una sola e non si può predicare di essa la totalità o la pluralità, così che si dica: “tutta la verità”, o: “molte verità”. Ma, d’altra parte, nel Vangelo si legge: “Egli vi insegnerà tutta la verità” (ivi, 16, 13). Inoltre: se non c’è altra verità, ogniqualvolta si dice che qualcosa è vero, si dice che è Dio, seppure per inerenza, per denominazione e designazione. Dunque, sono forse la stessa cosa essere vero e essere divino? Così sembra dalle correlazioni fatte.  Se non c’è altra verità all’infuori di Dio, essere vero è essere divino, e dire che la pianta è vera è lo stesso che dire che la pianta è divina, e dire che una proposizione è vera è come dire che è divina, e così di seguito per tutte le altre cose. Ancora: nelle cose future e nelle contingenti sembra che la verità sia corruttibile. Ma la verità, che è Dio, in nessun modo è corruttibile; dunque, c’è un’altra verità oltre alla somma verità. Ancora: la verità di una proposizione è la corrispondenza tra il discorso e la cosa. Ma Dio non è questo adeguamento, perché non c’era questa corrispondenza prima che esistessero il discorso e la cosa, mentre Dio e la somma verità erano anteriori sia al discorso sia alle cose create indicate nel discorso. C’è dunque qualche altra verità che non è la somma verità. Ancora: Agostino dice nei “Soliloqui” (II, 5 n. 8) che la verità è ciò che è, quindi l’essere di ogni cosa è la sua verità; ma l’essere di nessuna creatura è la somma verità, che è Dio; dunque c’è qualche altra verità oltre alla somma verità. […] … Allo stesso modo ogni creatura, lasciata a se stessa, come è dal nulla così nel nulla ricadrebbe. Poiché dunque non è da sé, ma considerata in se stessa la si trova tendente al non-essere, quando o come si vedrà che è, se non nell’adattarsi a ciò che la sostiene perché non rifluisca nel non-essere, e nel vedere che questa è sostenuta da quello? Questo è dunque, come pare, l’essere per qualche creatura, che sostenuto dalla parola eterna, della quale Paolo dice: “sostiene il tutto con la parola della sua potenza” (Ebr 1, 3). Né si sa veramente che c’è qualcosa di creato, se nella mente non lo si vede sostenuto dalla Paola eterna. E così in ogni essere, che è adesione all’essere primo, si vede in certo qual modo il primo essere, sebbene anche chi vede non sappia di vedere l’essere primo; né si vede l’essere contingente se non rapportandolo all’essere primo, che lo sostiene. Abbiamo detto sopra che l’occhio della mente sano che vedesse la luce prima e suprema in sé, in essa vedrebbe pure tutte le cose più chiaramente che se le vedesse in loro stesse. Forse a qualcuno non sembrerà che una cosa possa essere vista meglio nel suo modello che in se stessa; ma poiché la conoscenza della cosa è duplice, l’una in sé, l’altra nel suo modello o nella sua immagine, quando l’immagine o il modello ha un’essenza più chiara che la cosa stessa di cui è immagine, la conoscenza della cosa nella sua immagine o esemplare è più nobile, più alta e più manifesta. Quando invece, al contrario, l’essenza della cosa è più chiara della sua immagine esemplare, è più evidente e più manifesta all’occhio della mente sano la conoscenza della cosa in se stessa che nell’immagine o modello. Per questo, poiché l’essenza divina è luce luminosissima, ogni sua conoscenza per mezzo delle immagini è più oscura di quella ottenuta attraverso se stessa, mentre nelle case esterne delle creature chiarissime nella mente divina, che sono il modello luminosissimo delle creature, ogni conoscenza della creatura è più certa, più pura e più manifesta che non in se stessa. Ora, l’esempio del fatto che alcune cose sono viste più chiaramente nella loro immagine, si ritrova con evidenza nella visione corporea: quando infatti dall’occhio il raggio, col quale si vede il corpo in sé, finisce nell’oscurità e il raggio riflesso da uno specchio sul medesimo corpo, col quale quel corpo è visti nella sua immagine, finisce nella luce, il corpo sarà visto indistintamente in sé e chiaramente nella sua immagine, come accade quando al tramonto o di notte si vedono più distintamente le piante nell’acqua che in se stesse, a causa del raggio riflesso dall’acqua alla pianta che passa attraverso la trasparenza del cielo, mentre il raggio diretto sulla pianta stessa passa nella opacità di qualcosa di oscuro opposti ad essa. Al contrario, invece, quando il raggio riflesso dallo specchio passa nell’opacità e il raggio diretto al corpo passa nella trasparenza, si vedrà la cosa confusamente nella sua immagine e chiaramente in se stessa. Le sopraddette definizioni della verità sono comuni a tutti ciò che è vero, ma se si scende ai casi particolari si troverà una natura diversa per ogni cosa vera. Le verità infatti delle cose singole sono definizioni del loro essere primo o secondo, come la verità della proposizione, per la quale una proposizione è vera, non è altro che l’enunciazione di qualcosa che conviene ad un’altra o che non conviene; e questa è la definizione del suo essere primo. La verità invece di una proposizione, per la quale una proposizione è vera, non è altro che il significato dell’essere per ciò che è o del non-essere per ciò che non è; e questa la definizione del suo secondo essere. Perciò la definizione della verità è ambigua come quella di ente: da una parte è una in tutte le cose, e tuttavia, poiché è adeguata, è diversa in ciascuna cosa".

In conclusione: è vero ciò il cui essere è conforme alla sua idea esistente nella Parola eterna, il Verbo di Dio, mentre è falso ciò che sembra essere, e invece non è, conforme alla sua idea nella Parola eterna. Più in generale: quando si parla della verità, bisognerebbe sempre distinguere fra la verità assoluta e la verità relativa. La Verità assoluta è Dio: e di essa bisogna riconoscere che noi non avremo mai una conoscenza adeguata. Questa era precisamente anche l’idea di san Tommaso, benché molti storici della filosofia se ne mostrino poco consapevoli e perfino molti studiosi, che si dicono tomisti, lo ignorino. Per san Tommaso, noi possiamo portare delle prove razionali dell’esistenza di Dio, ma non abbiamo molto da dire circa la sua essenza, che è cosa ben diversa. L’essenza di Dio rimane inaccessibile alle menti umane; tutto quel che sappiamo di Lui, lo sappiamo dalla divina Rivelazione, che Egli stesso si è degnato di rivolgerci, fino al sublime mistero dell’Incarnazione del Verbo: il Figlio di Dio, che è anche la Parola di Dio, fattosi uomo di carne. La mente finita dell’uomo non può comprendere l’infinita realtà della mente di Dio: questo è un dato perfino ovvio, e opinare diversamente significherebbe fare torto o all’uomo, imponendogli una meta che è al di sopra delle sue possibilità e della sua stessa natura, o a Dio, sminuendone l’infinità e l’eternità per un peccato di orgoglio, ossia per non voler riconoscere che la creatura, in quanto tale, necessariamente nulla può sapere circa l’essenza del suo Creatore. Ora, questo è proprio quel che ha fatto la cultura moderna: ha rifiutato lo statuto ontologico della creatura e ha preteso di equipararsi al Creatore. Così facendo, si è scordata che la verità, umanamente parlando, non può essere che una verità parziale, e cioè relativa. Come ha fatto notare Roberto Grossatesta, negli enti finiti esistono due gradi dell’essere: assoluto e relativo. Ad esempio, nella proposizione: l’uomo è un essere animale, dotato di anima razionale, la prima parte esprime una verità assoluta: l’uomo è un essere animale, ossia appartiene agli esseri animati; la seconda è una verità relativa, perché questo o quel determinato uomo, per ragioni particolari (un incidente, una grave malattia, eccetera) potrebbe anche non possedere, o possedere solo in misura inadeguata, la facoltà razionale, per cui l’animale razionale, in questi soggetti, esisterebbe solo allo stato potenziale. Dunque, nella dimensione umana, la verità assoluta non esiste. Ciò non significa che l’uomo non possa, anzi, non debba tendere costantemente ad essa; e non significa neppure che non possa giungervi, e sia pure nella misura delle sue limitate capacità: come l’occhio che vede, e riconosce, ma non è in grado di vedere tutto, né di riconoscere tutto, bensì solo una piccola parte, e confusamente, e imperfettamente. Per comprendere quel che vogliamo dire, si pensi all’ultimo canto della Divina Commedia, dove Dante tenta di descrivere la sublime esperienza della visione di Dio. La sua difficoltà deriva sia dall’imperfezione dei sensi e della ragione, che non gli ha consentito di vedere perfettamente, sia dall’inadeguatezza del linguaggio e dall’oblio della visione, che gli fanno mancare le parole per descrivere ciò che ha visto. D’altra parte, Dante mette bene in evidenza il fatto che, se ha potuto spingere il suo sguardo così in alto, a quelle sublimi altezze, non è stato certo per i suoi meriti o per le sue capacità, ma solo e unicamente per la bontà di Dio, il quale, sollecitato dalle preghiere dei beati, gli ha dato la possibilità di trascendere se stesso per quel meraviglioso istante in cui si è realizzata la visione. Quindi, la Verità non è preclusa agli uomini, perché la Verità è Dio, e Dio si fa riconoscere da coloro che lo cercano sinceramente. L’uomo moderno non trova la verità, perché non riconosce la propria condizione creaturale e vorrebbe farsi il dio di se stesso; e siccome, ovviamente, va sempre a sbattere, prima o dopo, in una lunga serie di amare (e talvolta tragiche) delusioni, allora proclama che la verità non esiste, e che chiunque affermi il contrario deve essere, per forza, un povero pazzo, un illuso, o peggio, un aspirante dittatore, un fanatico che vuole imporre agli altri la sua ideologia. Facendo così, gli intellettuali moderni si comportano come quel cieco il quale, non avendo il bene della vista, proclami che il mondo è invisibile; o come il sordo che, non potendo udire i suoni, dichiari che qualunque discorso, qualunque musica, qualunque voce della natura, sono solamente favole, illusioni, vaneggiamenti. È evidente il corto circuito in cui la cultura moderna è venuta a mettersi con le sue stesse mani: negando Dio, essa ha negato la Verità; costretta a inseguire le piccole, imperfette verità parziali, o le ha idealizzate ed elevate, arbitrariamente, al rango della verità assoluta, o le ha sminuite, disprezzate e dichiarate del tutto menzognere: sicché ondeggia continuamente fra i due estremi dell’esaltazione e della disperazione. Tutto questo per non aver voluto ammettere la propria finitezza, la propria subordinazione a Dio, la propria incompletezza fino a quando egli non ritorni a Lui. Le verità umane non sono assolute, ma non sono neppure del tutto menzognere, purché si riconoscano per ciò che sono: tappe di un lungo percorso e tentativi di avvicinamento all’unica, autentica Verità, che non appartiene a questo mondo, perché consiste in Dio, e in Dio solo. Chi ha compreso questo, è già sulla strada per uscire dalla palude mefitica del relativismo; chi non l’ha capito, o piuttosto chi non lo vuole ammettere, è condannato a sguazzarvi e a rotolarvisi perennemente, senz’altro risultato che quello di sprofondare sempre di più, e d’ingoiare sempre più fango. Ed ecco che si tratta di fare una scelta: scegliere la Verità, significa anche realizzarsi pienamente come esseri umani; negarla o rifiutarla, significa condannarsi all’inferno. Sia metaforicamente che letteralmente.



domenica 18 dicembre 2016

Facciamo il presepio a Natale




Ci avviciniamo al Santo Natale e come succede ormai da qualche anno (di più, di più) tornano le polemiche sull'allestimento dei presepi nelle scuole o in altri ambienti pubblici (qui si veda un esempio degli ultimi giorni), provocazioni che sono in genere attuate da laicisti, ostili a prescindere, verso ogni manifestazione pubblica della propria fede da parte di cattolici o appartenenti ad altre confessioni; spesso queste provocazioni adottano come scusa la classica frase politically correct "per rispetto degli islamici" o qualche frase equivalente. Non mi dilungo troppo, di anticristiani ce ne sono più di 50 sfumature, ognuno di loro decisi a zittire se non a eliminare chi ancora crede in quel bambino nato in quella grotta. Aggiungo solo che guardando qua e là nel WEB ho trovato questo breve e gustoso apologo:


Si arriverà al Presepe senza Madonna, Giuseppe e Bambinello, per non offendere le altre religioni (???). Senza bue ed asinello, per non offendere gli animalisti. Senza i Re Magi, per non offendere repubblicani e comunisti. Senza le palme, per via dell' olio di palma. Senza Capanna, per non offendere la dignità dello Zio Tom. Senza il laghetto, perchè privo del depuratore. Senza la Stella Cometa, perchè sospettata di produrre Scie Chimiche. Senza pastorelli, per non incorrere nello sfruttamento del lavoro minorile. Senza, senza, senza... senza Dio.

A chi ipocritamente e per finto zelo verso "gli altri", chiede di censurare, vietare ed eliminare i presepi dalla nostra vita pubblica, oppongo il mio modesto rifiuto e aggiungo il mio granellino di sabbia nella formidabile macchina anticristiana con il seguente video che mostra "Un Presepe".

A tutti Buon Natale, nasce Gesù il nostro Re.




giovedì 15 dicembre 2016

Marcel Lefebvre: "Tradidi et quod accepi"




L'articolo che segue, appartiene ad un filone che mi intriga e mi ha spinto ad aprire questo blog: la ricerca della Verità, anche se (e soprattutto se) questa Verità - ricercata nelle pieghe della Storia - va contro le opinioni e credenze diffuse; va contro il "politically correct", va contro la propaganda "mainstream" che imperversa da tanto (troppo) tempo negli ambienti "cristiani" e non; il contenuto dell'articolo è "pericoloso" perché chi si avvicina ad argomenti del genere, rischia di venir per così dire "infettato" e di essere etichettato come fondamentalista, tradizionalista, perfino sedevacantista. Ne ho già parlato qui ma "repetita iuvant" e per far sì che i luoghi comuni, i pregiudizi (dettati magari da superficialità o ignoranza), le credenze caricaturali della storia, vengano annullate dalla Verità, ci vuole un'opera paziente e perseverante di diffusione dei fatti così come si sono svolti e non come sono stati sempre raccontati. Personalmente non mi sento di essere "infettato" da niente e nessuno ma mi sento libero di "discutere" anche su argomenti che "universalmente" sono stati ritenuti dall'Intelligencija esecrabili e da relegare nell'oblio della Storia. Ma stiamo trattando di qualcosa che Fa parte della Storia: la Tradizione.




Tradidi et quod accepi: Vi ho trasmesso soltanto ciò che avevo ricevuto. Sono le parole che si possono leggere, incise su una tomba presso il seminario di Ecône, nella Svizzera francese: il seminario appartiene alla Fraternità sacerdotale san Pio X, fondato nel 1971; la tomba è quella dell’Arcivescovo cattolico Marcel Lefebvre, il più risoluto oppositore delle innovazioni dottrinali e liturgiche introdotte dal Concilio Vaticano II, opposizione che gli valse, nel 1988, la scomunica da parte del pontefice Giovanni Paolo II.

Figura scomoda, quella di monsignor Lefebvre, e quanto mai politicamente scorretta; figura controversa, quasi un segno di contraddizione, da pochi ammirata e perfino venerata, da molti criticata e condannata, dalla maggioranza, semplicemente, poco conosciuta e, pertanto, giudicata in fretta, superficialmente, per sentito dire. Monsignor Lefebvre?, si chiedeva qualcuno, ogni tanto, imbattendosi nel suo nome sulla stampa o nel corso dei telegiornali. Ah, sì, quel vecchio vescovo testardo, che rifiuta le novità del Concilio e vuol andare avanti per la sua strada, anche se è solo contro tutti. E si liquidava il discorso con un’alzata di spalle. 

Il Concilio Vaticano II – il Concilio per antonomasia -, così ci è sempre stato detto e ripetuto, è stato un momento glorioso e luminoso nella storia della Chiesa cattolica; il Concilio ha portato il progresso, la vita, l’aria fresca nelle stanze chiuse, che sapevano di muffa, della tradizione tridentina. Ha rinnovato il culto, ha rinnovato la Messa, ha rinnovato i rapporti con le altre confessioni e con le altre fedi… Insomma, ha messo la Chiesa, per la prima volta, in sintonia con le “conquiste” del mondo moderno: quelle stesse che un secolo prima, nel Sillabo, il papa Pio IX aveva elencate puntigliosamente, ma solo per condannarle tutte, una dopo l’altra. 

E allora, come si faceva a non esser favorevoli al Concilio? Come si poteva immaginare che monsignor Lefebvre avesse anche solo un pochino di ragione? Nessuno ha ragione contro il progresso, contro la modernità; anzi, chiunque pretenda di opporsi al progresso, fa inevitabilmente la figura di don Chisciotte che parte, a briglia sciolta e lancia in resta, per la sua memorabile battaglia… contro i mulini a vento.

Monsignor Lefebvre, pietra d’inciampo sulle magnifiche sorti e progressive della cattolicesimo finalmente modernizzato. Una figura addirittura incomprensibile per i tanti, troppi cattolici progressisti, per i teologi neomodernisti, per i cardinali, gli arcivescovi e i vescovi propugnatori delle ultime novità in fatto di “misericordia” del Signore: possibilisti sulla Eucarestia ai divorziati risposati, sul matrimonio omosessuale, sul perdono relativamente facile dell’aborto volontario; e, naturalmente, tutti infiammati di sacro zelo sociale e politico, tutti infervorati dalla teologia della liberazione, tutti protesi nell’opera di persuasione, per non dire di costrizione, relativamente all’accoglienza dei cosiddetti migranti, in realtà invasori islamici che si apprestano a colonizzare l’Europa e a fare quel che non seppero fare, con le armi in pugno, Arabi e  Turchi nei secoli passati: non solo sottomettere il nostro continente e convertirlo alla bandiera verde del Profeta, ma, addirittura, sostituirne la popolazione, facilitando l’eutanasia dei popoli cristiani (o post-cristiani), sempre più vecchi, e rimpiazzandoli con i giovani figli dell’Africa e del Medio Oriente, estremamente prolifici. E anche su questo terreno, cioè sul giudizio relativo alle possibilità di “coesistenza pacifica” con l’Islam, bisogna ammettere che monsignor Lefebvre (che era stato, per molti anni, missionario in Africa e poi arcivescovo di Dakar, nel Senegal, e aveva riportato successi straordinari nel convertire al cattolicesimo quelle popolazioni) aveva lanciato l’allarme assai per tempo, e, a quanto pare, aveva avuto la vista migliore di tanti inguaribili ottimisti odierni per partito preso…

Ma che cosa gli si rimproverava, alla fine? Di aver sgarrato in fatto di dottrina? Assolutamente no; al contrario… Di essersi ribellato all’autorità del papa? Sì, ma fino a un certo punto. Monsignor Lefebvre riconosceva pienamente l’autorità del Pontefice; sosteneva, però, che, al di sopra di tutto, viene l’autorità di Colui del quale il Papa è il semplice vicario sulla terra: Gesù Cristo. E sosteneva che, avendo il Concilio Vaticano II deliberato alcuni atti ufficiali, come la dichiarazione Dignitatis Humanae del 7 dicembre 1965, sulla libertà religiosa, che sono in contrasto – a suo dire – con la lettera e con lo spirito del Vangelo, non gli era possibile obbedire agli uomini piuttosto che a Dio. Ma è vero che alcune deliberazioni e alcune riforme del Concilio “tradiscono” il sacro Magistero e la Tradizione della Chiesa cattolica? Questo è il punto; questo è il nodo. Se questo è vero, o se è vero anche solo in parte, allora monsignor Lefebvre aveva ragione, per l’appunto, almeno in parte; se non lo è, aveva torto. Non è una questione accademica, e il fatto che monsignor Lefebvre sia morto da un quarto di secolo (nel 1991) non la rende meno urgente, né meno spinosa. A parte il fatto che la Fraternità sacerdotale san Pio X esiste tuttora, e, anzi, gode di buona salute, perfino migliore – quanto a vocazioni – di quanta non ne goda, mediamente, il resto della Chiesa cattolica, resta una questione di principio di enorme rilevanza, anche per i possibili sviluppi futuri: la via intrapresa dal Concilio – riforma liturgica; nuova Messa; ecumenismo; liberà religiosa e dialogo inter-religioso, collegialità episcopale – era quella giusta? E come mai, se lo era, lo stesso Paolo VI ebbe ad osservare, soltanto poco tempo dopo, che col Concilio Vaticano II ci aspettavamo una primavera, invece è venuto l’inverno?

E se non era quella giusta, o se, almeno in parte, si è rivelata sbagliata, non significa questo che monsignor Lefebvre aveva visto giusto? Ripetiamo: questa non è una questione accademica: è in ballo la dottrina, non solo la teologia; è in ballo il destino della Chiesa; è in ballo, soprattutto, la fedeltà della Chiesa al Vangelo di Cristo e, di conseguenza, è in gioco la salute delle anime. Un Magistero fedele alla parola di Dio assicura loro la salvezza; ma un Magistero sviato nell’errore – somma sciagura, finora addirittura impensabile nei duemila anni di storia della Chiesa -, lascerebbe le anime abbandonate a se stesse, o, peggio, le trascinerebbe con sé lungo delle strade che non portano a Dio.

Questioni enormi, come si vede; questioni di vita o di morte.

Per mettere a fuoco la sostanza del problema posto dallo “scisma” di monsignor Lefebvre (scriviamo scisma fra virgolette, perché qui non si è trattato di creare una nuova chiesa, in antagonismo con quella cattolica, ma, al contrario, di rivendicare la piena fedeltà ad essa, nel suo spirito autentico e cioè nella sua Tradizione), non solo e non tanto sul piano liturgico e pastorale, ma proprio sul terreno teologico e dogmatico, ci è sembrato utile citare alcuni passaggi dal libro Un vescovo cattolico, a cura della Fraternità San Pio X in Italia, beninteso tenendo conto del fatto che vi è espresso il punto di vista di monsignor Lefebvre e dei suoi seguaci (Torino, Edizioni San Francesco di Sales, 1990, pp. 146-148):

Nella Chiesa cattolica lo scisma o scissione nei confronti della legittima autorità non si realizza che per una rivolta contro l’autorità o la funzione del papa. Il Cardinal Journet nel suo trattato “L’Eglise du Verbe Incarné” (T. II) si esprime in questi termini: “La disobbedienza per quanto sia ostinata non costituisce uno scisma fino a quando non comporta una rivolta contro la funzione del papa o della Chiesa. Se, continuando a riconoscere il Sommo Pontefice come mio superiore, gli disobbedisco per interesse o passione, può esservi peccato molto grave di disobbedienza ma non è ancora lo scisma: e se rifiuto una delle sue decisioni perché è evidentemente erronea, essendo pronto ad obbedirgli per quel che riguarda le altre cose, ciò può avvenire senza che vi sia alcuna colpa”.

Da quando il modernismo è penetrato nella Chiesa l’attitudine di Mons. Lefebvre, e di molti cattolici che volevano conservare la loro fede, è stata quella della resistenza. Neppure il papa o un Concilio può cambiare l’insegnamento di Nostro Signore. “Se anche noi stessi o un Angelo dal cielo vi annunciasse un Vangelo diverso da quello che riceveste, sia anatema”, diceva S. Paolo.


Qualcuno potrebbe obiettare che la resistenza ai principi modernisti della Chiesa conciliare era del tutto lecita a Mons. Lefebvre, ma l’atto scismatico è stato proprio la consacrazione episcopale di quattro vescovi senza il permesso del papa [Fellay, Tissier de Mallerais, Williamson e de Galarreta, che fu  “illecita”, ma “valida”, secondo il Codice di Diritto Canonico]. Si risponde facilmente dimostrando che la consacrazione di vescovi senza il permesso del papa non è di per sé un atto scismatico se non c’è l’intenzione di fondare una nuova chiesa parallela con una nuova gerarchia. Il Codice di Diritto Canonico del 1917, in effetti, prevedeva per quest’atto, come pena, la semplice sospensione “a divinis” mentre il reato di scisma era punito con la scomunica. Pio XII, nel 1951 e 1958 aggravò la pena con la scomunica, ma questo fu in occasione delle consacrazioni realizzate per costituire delle chiese separate da Roma e sottomesse, come fu il caso in Cina, a degli stati comunisti.

Lo stesso cardinale Castillo Lara, presidente della pontificia commissione per l’interpretazione autentica del Codice di Diritto Canonico, in un’intervista apparsa su “Repubblica” il 10 luglio 1988 dichiarava che il solo fatto di consacrare un vescovo non è un atto di per sé scismatico”, specificando che si tratta di un delitto contro l’esercizio del proprio ministero e non contro la religione e l’unità della Chiesa. D’altra parte, Mons. Lefebvre ha dichiarato espressamente di compiere quest’atto unicamente per garantire ai fedeli la predicazione della buona dottrina e l’amministrazione dei Sacramenti con la continuità del Sacerdozio Cattolico. Mai gli è balenata l’idea di costituire una nuova chiesa. Nella lettera che aveva indirizzato ai futuri vescovi diceva loro: “Vi scongiuro di rimanere attaccati alla cattedra di Pietro, alla Chiesa Romana, Madre e Maestra di tutte le Chiese, nella Fede Cattolica integrale, espressa nei Simboli della Fede, nel Catechismo del Concilio di Trento, conformemente con quello che vi è stato insegnato nel vostro seminario. Rimanete fedeli nella trasmissione di questa Fede in modo che giunga il regno di Nostro Signore”. Nella predica, il giorno stesso delle consacrazioni (30 giugno 1988), Mons. Lefebvre ribadiva questa intenzione: Noi non siamo scismatici. Se la scomunica è stata pronunciata contro i Vescovi di Cina, che si sono separati da Roma e che si sono sottomessi al governo cinese, si comprende assai bene perché il Papa Pio XII li ha scomunicati. Non si tratta per noi di separarci da Roma e di sottometterci ad un qualche potere estraneo a Roma, né di costituire una sorta di chiesa parallela come hanno fatto per esempio i Vescovi di Palmar de Troya, Spagna, che hanno nominato un Papa, che hanno fatto un collegio di cardinali. Per noi non si tratta affatto di cose simili. Lungi da noi questo miserabile pensiero di allontanarci da Roma. Al contrario, è per manifestare il nostro attaccamento alla Chiesa di sempre, al Papa e a tutti coloro che hanno preceduto questi papi che disgraziatamente dal Concilio Vaticano II hanno creduto di dover aderire a gravi errori che stanno per demolire la Chiesa e per distruggere il sacerdozio cattolico". È necessario, perciò, ben capire in che cosa consista l’autorità e la funzione del papa poiché, come abbiamo visto, soltanto quando v’è rivolta contro di esse si può parlare di scisma. Il papa è il Vicario di Cristo. Deve rappresentare Nostro Signore sulla terra e trasmettere integralmente il suo insegnamento. Deve inoltre vegliare alla trasmissione dei mezzi di santificazione che Gesù ci ha lasciato: i sacramenti, continuando il sacerdozio Cattolico. Voler consacrare dei Vescovi, quindi, per garantire ai fedeli la predicazione della buona dottrina e l’amministrazione dei sacramenti, è totalmente in sintonia con l’autorità e la funzione del Papa. Perché il permesso ci viene negato dal papa attuale (Giovanni Paolo II?). A causa della crisi che imperversa nella Chiesa perché “Gli artigiani dell’errore non bisogna cercarli oggi fra i nemici dichiarati. Essi si nascondono… nel seno stesso della chiesa” (san Pio X) perché “il fumo di satana è penetrato nel tempio di Dio” (Paolo VI). 

Si condanna Mons. Lefebvre perché si rifiuta di accettare gli errori liberali condannati dai papi e penetrati nella Chiesa grazie all’ultimo Concilio. Questo fu il motivo per cui gli si intimò di chiudere il suo seminario nel 1976; questo è il motivo fondamentale per cui lo si condanna oggi. Giovanni Paolo II stesso afferma in “Ecclesia Dei” che “La radice di quest’atto scismatico può riconoscersi in una certa nozione di Tradizione imperfetta e contraddittoria, poiché essa non considera sufficientemente il carattere vivente della Tradizione stessa…”. Ecco cosa si rimprovera a Mons. Lefebvre: ecco il vero punto di disaccordo: una nozione di Tradizione imperfetta e contraddittoria perché non è “viva” in quanto non accetta i cambiamento sopravvenuti dal Concilio in poi. (In particolare, la libertà religiosa, l’ecumenismo,  la collegialità episcopale). Condannato perché rifiuta di cambiare la propria fede: ecco il vero motivo della scomunica. La verità non cambia col tempo. “Il cielo e la terra passeranno ma le mie parole non passeranno” ha detto Nostro Signore. Il carattere proprio del modernismo è quello di affermare che il dogma, essendo un frutto del sentimento religioso, cambia col tempo ed evolve. Contro di esso si sono scagliati tutti i pontefici da san Pio X a Pio XII. Se fossero vivi oggi rinnoverebbero certamente la condanna contro i modernisti penetrati all’interno della Chiesa, senza risparmiare gli errori conciliari, già denunciati nei loro scritti. Il disaccordo quindi non è con la Chiesa e la Cattedra di Pietro, ma con coloro che, imbevuti di principi liberali, stanno occupando la Chiesa insegnando dottrine già condannate dalla tradizione.

Dal punto di vista strettamente teologico, dunque – Messa in latino o no – la vera ragione del contendere è il concetto di Tradizione: dalla sua diversa interpretazione derivano le opposte conclusioni dei seguaci di monsignor Lefebvre e della Chiesa cattolica post-conciliare. Secondo il Magistero degli ultimi papi, e specialmente di Paolo VI e di Giovanni Paolo II, la Tradizione va intesa come una realtà viva e, perciò, in una certa misura, anche mutevole, bisognosa di essere “aggiornata” con il trascorrere del tempo e il mutare delle situazioni: questa è la ragione per cui, nel 1962-65, venne deciso che la Tradizione cattolica, così come era stata fissata nel Concilio di Trento, e, in seguito, ulteriormente definita nel Concilio Vaticano I, non era più adeguata a reggere la sfida dei tempi moderni. Per la maggioranza dei padri conciliari (del Vaticano II), una Messa liturgicamente stabilita quattro secoli prima - quella di Pio V - e una serie di prese di posizione nei confronti della civiltà moderna, nonché le relative condanne - il Sillabo di Pio IX - risalente a cento anni prima, non erano più corrispondenti alla situazione della seconda metà del XX secolo e andavano, perciò, riformulati. Per monsignor Lefebvre, invece, la Tradizione è, sì, una realtà viva, ma di una vita perenne: per cui, se sono ammissibili taluni aggiornamenti liturgici, non lo sono delle vere e proprie innovazioni di prospettiva teologica. E, del resto, per monsignor Lefebvre, la liturgia stessa non è semplicemente la parte “variabile” del Magistero; al contrario, la liturgia è simbolo dell’infinito mistero divino, e i simboli del mistero divino non si possono cambiare a piacere, come dei vestiti vecchi, quando la sensibilità dei tempi nuovi li trova “superati”. Anche in questo campo, perciò, sono necessarie la massima prudenza e la massima ponderazione prima di modificare qualcosa: il popolo cristiano è giustamente affezionato ai simboli del rito cattolico, perché vede in essi il riflesso di una verità eterna e immutabile.

Ecco perché Giovanni Paolo II accusò monsignor Lefebvre di avere una concezione contraddittoria e imperfetta della Tradizione: furono queste le espressioni che adoperò al momento di ratificare la scomunica latae sententiae del 1988, allorché l’arcivescovo francese volle nominare i quattro nuovi vescovi, nonostante il preventivo ammonimento vaticano. È stato osservato che tale scomunica, benché tecnicamente ineccepibile, non era, tuttavia, inevitabile: consacrando i quattro nuovi vescovi, monsignor Lefebvre aveva compiuto un atto illegittimo, però canonicamente valido: il suo peccato era stato quello di procedere senza l’autorizzazione di Roma, e non, di per sé, quello di averli nominati. Pio XII aveva esteso la scomunica a simili atti di disobbedienza in ordine a un precedente ben preciso: quello di quei vescovi cinesi che si erano sottomessi al governo comunista in cambio di un “riconoscimento”, che, però, non si estendeva a tutti i cattolici cinesi, ma solo a quelli che sottoscrivevano tale sottomissione: atto che, perciò, era stato disapprovato dal Papa, appunto perché infeudava la Chiesa cinese (quella scismatica, a quel punto) al regime comunista, e lasciava del tutto “scoperti”, ed esposti a ogni persecuzione, gli altri cattolici. Il caso di monsignor Lefebvre era completamente diverso, per non dire opposto. La sua “colpa” era stata quella di voler restare fedele alla Tradizione; se aveva disobbedito al Papa, non era stato che per quel motivo, ma, in tutto il resto, riconosceva la sua autorità e si sottometteva a lui. E quanto al fatto di essersi ostinato in quelle nomine, vanificando la lunga e faticosa opera di mediazione svolta dal cardinale Ratzinger, la cosa venne presentata dalla stampa come un atto di sfida gratuita, ma la verità è ben diversa: senza procedere a nuove consacrazioni episcopali, il seminario di Ecône, e, più in generale, quella parte del clero che si riconosceva nelle posizioni di monsignor Lefebvre, non solo in Francia, ma in tutto il mondo (perché la Fraternità sacerdotale san Pio X abbraccia tutti i continenti) sarebbe rimasta senza nuovi sacerdoti e, quindi, si sarebbe spenta per mancanza di ossigeno. In pratica, rinunciare alla nomina dei vescovi (il papa gli aveva concesso, tutt’al più, di consacrarne uno solo, a una data stabilita: il 15 agosto 1988, festa dell’Assunzione di Maria) sarebbe equivalso, per monsignor Lefebvre e per tutto il “movimento” da lui creato, a una specie di eutanasia. Ritorniamo perciò alla domanda cruciale: chi ha ragione, nella interpretazione del concetto di Tradizione: monsignor Lefebvre o la Chiesa post-conciliare? Non bisogna lasciarsi sviare da questioni secondarie, per quanto cariche di significati simbolici: la vera posta in gioco non era, e non è, la Messa tridentina o il Novus Ordo Missae. Il punto centrale è la Tradizione: è da quello che deriva tutto il resto. D’altra parte, vi è un autentico corto circuito nel quale finiscono per cadere quanti condannano senza appello, anche in senso teologico e pastorale, la figura e l’opera di monsignor Lefebvre. Infatti, il solo fatto che si parli di una Chiesa post-conciliare è, teologicamente parlando, illegittimo e intollerabile: non esistono, né possono esistere, “diverse” chiese cattoliche, a seconda dei tempi; la Chiesa è una, è sempre stata una e deve restare, necessariamente, una ed una sola. San Paolo ammoniva che, se qualcuno avesse insegnato ai cristiani delle prime comunità, in Asia Minore e in Grecia, un Vangelo diverso da quello insegnato da lui e dagli altri apostoli, quello sarebbe stato da considerarsi anatema, cioè maledetto. Non ci possono essere due Vangeli; e non ci possono essere due Chiese. Pertanto, se si ammette che la Chiesa uscita dal Concilio Vaticano II era una Chiesa diversa da quella preesistente, si incorre in una affermazione eretica, e si dà ragione proprio a monsignor Lefebvre.

Per superare l’impasse, oggi molti autori, e soprattutto i papi che si sono succeduti dopo Giovanni XXIII, hanno sempre preferito parlare della “continuità” fra la Chiesa di prima e quella successiva al 1962-65: così, ad esempio, si esprimeva il cardinale Ratzinger, specialmente quando venne eletto pontefice con il nome di Benedetto XVI. Egli, da giovane, era stato piuttosto favorevole ai “novatori” durante il Concilio, ma poi aveva svolto una precisa critica, che era stata anche una autocritica, e aveva riconosciuto che, in taluni aspetti, lo spirito riformista del Concilio era andato troppo oltre. Altri, come lo storico Alberto Melloni e la cosiddetta “scuola di Bologna”, evidenziano invece l’ermeneutica della discontinuità; evidentemente, non si rendono conto che, in tal modo, fanno autogol, perché, ammettendo che il Concilio Vaticano II operò una rottura con il Magistero precedente, rendono legittime le perplessità e le critiche di quanti negano che un concilio, o un papa, abbiamo la potestà di disporre del Magistero come di una cosa “loro”, che si possa modificare a piacere, oppure, nel caso dei padri conciliari – e come di fatto avvenne – che si possa modificare a colpi di maggioranza.

A questo punto, crediamo di aver delineato i tratti essenziali del problema; e lasciamo che ciascuno, in coscienza, ne tragga le sue personali conclusioni.

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Autore di questo articolo è   Francesco Lamendola  su   ilcorrieredelleregioni.it

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lunedì 28 novembre 2016

Cattochitarrismo in Chiesa



Come e cosa suonare in Chiesa, su questo argomento ho trovato nell'iperspazio di tutto e di più, chi la pensa così e chi la pensa cosà (qui un articolo di esempio)(e qui un altro), chi ama il classico e chi il moderno ; credo che potendo e avendo a disposizione un organista che ci sappia fare, molti (spero) sceglierebbero appunto come accompagnamento musicale in Chiesa il principe degli strumenti musicali, cioè l'organo a canne, capace di sviluppare una atmosfera "sacra" come nessun altro strumento. Certo, l'organo non è molto adatto alle "canzoncine moderne" che in molte parrocchie vanno per la maggiore. Ma su questo argomento vi invito a leggere un articolo di Giorgio Enrico Cavallo scritto su www.campariedemaistre; mi è sembrato scritto con un certo senso dell'umorismo ma anche venato da un pizzico di malinconia.


Fra tamburelli e cattochitarrismo

di Giorgio Enrico Cavallo

Sono solo canzonette, cantava Bennato, per dire che non intendeva occuparsi né di politica né fare cultura. Solo musica, fine a se stessa. Mi si perdoni lo sfogo, ma credo che un discorso analogo possa valere, oggi, anche per i canti della liturgia contemporanea. A partire dalle canzoni frutto della variegata tavolozza cromatica dei Gen (verde e rosso), la musica a servizio della Messa si è appiattita al punto da proporre solo coretti di nessun valore artistico, pochissima partecipazione dei fedeli e con testi di tale mielosità da fare invidia allo Zecchino d’Oro. 

Lo so, lo so: il tema “musica liturgica contemporanea” è il classico argomento da cristiani-al-bar, e immediatamente porta dietro opposte barricate gli entusiasti della canzone-pop moderna e i paladini della purezza armonica à la Ancien Régime. Lungi da me scatenare polveroni, intendiamoci; però, due parole le voglio comunque scrivere (e lo farò come don Camillo insegna, armato almeno di un palo di pioppo, che è un legno dolce e se è usato non fa troppo male; ma solo per legittima difesa).

Se devo scegliere tra le due barricate, scelgo quella à la Ancien Régime. E lo faccio un po’ a malincuore perché, come dirò più avanti, non mi si offre la terza scelta. D’altronde, l’alternativa sono i jingle di dubbio gusto con testi di dubbio valore. Ma sbaglio io, oppure un tempo – neanche troppo tempo fa – se si cantava in chiesa lo si faceva per pregare? Per rispondere, sfogliate un libretto dei canti di qualunque parrocchia: i capolavori, gettonatissimi, del tipo “La Stella Polare” o “Ecco quel che abbiamo” sono ottimi divertissement, ma hanno testi così generalisti che possono essere cantati da tutti, cristiani e non. Volessero, potrebbero cantarli anche i musulmani: tanto, Dio è uno solo, no? 

Sorprende non poco che in molte – non tutte, grazie al Cielo – canzoni che vengono proposte dai nostri coretti siano spariti i nomi di Cristo e di Dio. Spariti. Direte: “sono sottointesi”, oppure ancora: “sono metafore”. Io, da cristiano particolarmente testone, continuo a dire che la musica liturgica non è uno stacchetto musicale che riempie tempi morti. Pertanto così, possiamo anche metterci 30 secondi di pubblicità. No: la musica è parte della liturgia, perché eleva l’uomo verso Dio e perché essenzialmente è una preghiera. 

E non ve lo dice un cristiano caprone ed ottuso. Ve lo dicono i Pontefici. Leggiamo alcuni stralci dal Motu Proprio «Tra le Sollecitudini» di San Pio X: «La musica sacra, come parte integrante della solenne liturgia, ne partecipa il fine generale, che è la gloria di Dio e la santificazione e edificazione dei fedeli». Corbezzoli: abbiamo letto bene, la musica deve partecipare alla gloria di Dio ed alla edificazione dei fedeli. Ebbene, viene da meditare un attimo sul tipo di musica che ci viene proposta, praticamente senza alternativa, nelle Messe contemporanee: perché se da un lato possiamo dire che, in fondo, ognuno glorifica Dio secondo un proprio sentimento, è anche vero che non è proprio possibile dire che le canzoncine nazionalpopolari che vengono strimpellate durante il contemporaneo rito Novus Ordo edifichino i fedeli. I loro testi sono così epurati di significati profondi e così intrisi di buonismo, baci, abbracci, vollemmossebbene e via dicendo, da far pensare che, in fondo, la Chiesa altro non sia che una onlus del buonumore. E, a proposito di Novus Ordo, vale la pena dare una sbirciatina a ciò che afferma il Vaticano II in tema di musica sacra. Leggiamo la costituzione Sacrosanctum Concilium, par. 112: «La musica sacra sarà tanto più santa quanto più strettamente sarà unita all'azione liturgica, sia dando alla preghiera un'espressione più soave e favorendo l'unanimità, sia arricchendo di maggior solennità i riti sacri».

E sugli strumenti? Di nuovo Pio X ammoniva: «È proibito in chiesa l’uso del pianoforte, come pure quello degli strumenti fragorosi o leggeri, quali sono il tamburo, la grancassa, i piatti, i campanelli e simili». E di nuovo, mi si dirà che Pio X era all’antica e non parlava con lo “spirito del Concilio”. Leggiamo quindi nuovamente la "Sacrosanctum Concilium", par. 120: «Nella Chiesa latina si abbia in grande onore l'organo a canne, strumento musicale tradizionale, il cui suono è in grado di aggiungere un notevole splendore alle cerimonie della Chiesa, e di elevare potentemente gli animi a Dio e alle cose celesti. Altri strumenti, poi, si possono ammettere nel culto divino, a giudizio e con il consenso della competente autorità ecclesiastica territoriale, […] purché siano adatti all'uso sacro o vi si possano adattare, convengano alla dignità del Tempio e favoriscano veramente l'edificazione dei fedeli». A ben vedere, oggi abbiamo aperto le porte delle chiese a tamburelli, chitarre e chitarrine, maracas, ukulele e via dicendo, tanto che le nostre Messe sembrano suonate dagli animatori di un camping della riviera romagnola. Ma la funzione non deve essere “animata” dai fedeli, pur mossi dalle migliori intenzioni; piuttosto, è essa stessa che deve “animare” il fedele. 

Sì, diciamolo: i bonghi, i tamburelli e gli ukuleli tipici delle spiagge o delle crociere non comunicano niente di sacro: trasmettono soltanto sciatteria. Sciatteria ben certificata da un processo in atto, ormai da mezzo secolo: cioè quello di purgare la musica sacra – e la liturgia – con il gusto mondano. Solo così si possono spiegare concessioni singolari e talvolta fortemente discutibili, come la scelta di canzoni di autori pop o ancora l’uso di movimenti in stile “macarena” (l’avete presente? “Alleluja” – si sventolano le mani – “Alleluja” – si sventolano le mani). 


Ora, a bocce ferme, come uscire dal pantano di questo imbarazzante kitsch musicale? Forse riproponendo le Messe cantate di Vivaldi o di Perosi? Davvero, oltre all’irrealizzabilità di una simile proposta bisogna anche prendere atto che il gusto è cambiato. Radicalmente. Non resta che affidarci a musicisti moderni nel gusto ma validi nello stile: cosa per niente peregrina, perché anche del desolante panorama culturale nostrano ci sono compositori in grado di scrivere musica sacra di valore. L’unico, insignificante problema è che un moderno Mozart non può andare in chiesa mettendosi a suonare a suo piacimento. No. Deve prima passare sotto il vaglio del coretto e, comunque, deve prima ricevere il nulla osta dal sacerdote. Non so proprio con chi dei due sia più facile venire a patti: se con taluni Zecchini d’Oro delle parrocchie o con molti dei preti post-Concilio-e-post-68. Tanto – ti vengono a dire – a che serve cambiare? A che giova la qualità? A che pro celebrare una Messa che elevi l’animo dell’uomo? Se ai fedeli piacciono le canzonette, gli vengano date le canzonette. E solo quelle.