sabato 28 gennaio 2017

Filobergogliani (guelfi) e antibergogliani (ghibellini)


La Chiesa, la Fede e questo Papa sono al centro di tutti gli articoli dei vari siti che si rifanno appunto al cristianesimo; il Papa con i suoi atti e le sue parole sta veramente concentrando l'attenzione del mondo, quello cattolico e quello anticattolico. Non è possibile stare dietro a tutte le notizie che imperversano sul web, ma è però facile capire che si è formato un dualismo rispetto alle opinioni che vengono pubblicate, articoli con opinioni probergoglio e antibergoglio; attenzione non sto dicendo che si siano formate delle fazioni pro e contro il Papa in "Sé come istituzione" (il papato non si tocca) ma al centro c'è proprio l'uomo Bergoglio: sembra di ritornare a  una sorta di divisione guelfi-ghibellini, con la differenza che la divisione non è tra filopapali (guelfi) e filoimperiali (ghibellini), ma tra filobergogliani (guelfi) e antibergogliani (ghibellini); tra le schiere guelfe possiamo sorprendentemente trovare le quinte colonne del mondo anticristiano (Scalfari, Pannella Ω e Bonino, Clinton e Castro Ω) mentre tra le schiere  ghibelline iniziano ad accorrere personaggi un tempo solidamente papisti a dare battaglia nella guerra mediatica scatenatasi. La fazione ghibellina, è in netta minoranza rispetto alla potenza mediatica guelfa composta dalle corazzate bergogliane con in testa Avvenire e Vatican Insider. Proverò io a soccorrere i più deboli (aiuto sempre i più deboli, è un atto di misericordia...) mettendo qualche link ad articoli che pongono dei "dubia" a questa situazione che si è creata nella Chiesa.










giovedì 19 gennaio 2017

L'angolo della Fede - La parola di Verità



Oggi, per chi si trovasse a leggere questa pagina, voglio proporre alcuni brevi contributi audio, sono come spesso faccio, delle omelie, in questo caso (tutte) di padre Giorgio Maria Farè, sono omelie rintracciabili qui, ma volentieri le rilancio essendo, come tutti potranno verificare, parole di sana e piena dottrina cattolica.




Il 1° contributo audio si intitola: 

La presenza reale di Gesù



Il 2° contributo audio si intitola
San Pio da Pietrelcina



Il 3° contributo audio si intitola
Timeo Christum transeunte



Il 4° contributo audio si intitola
Perdere tutto ma non Gesù



Il 5° contributo audio si intitola
Prigionieri a motivo del Signore




domenica 15 gennaio 2017

Dubia? Motus in fine velocior!



Anche oggi il grande tema che riguarda la relazione tra Chiesa e Verità, passa per i "Dubia" che da troppo tempo sono la pietra d'inciampo che la gerarchia della Chiesa, Papa e Vescovi non si decidono a "chiarire" le domande poste nei "Dubia" e quale interpretazione dare per certa e vera affinché i fedeli non rimangano scandalizzati e smarriti per la grande confusione che ne deriva e per il bene dei fedeli e della Chiesa stessa. Anche oggi un articolo scritto da Matteo Matzuzzi per Il Foglio può venirci incontro per cercare di chiarire i dubbi che rendono sempre più confuso il nostro "essere" nella Chiesa e con la Chiesa.



I doveri obbligano



“Solo un cieco può negare che nella Chiesa ci sia grande confusione”. 

Intervista al cardinale Carlo Caffarra

“La divisione tra pastori è la causa della lettera che abbiamo spedito a Francesco. Non il suo effetto. Insulti e minacce di sanzioni canoniche sono cose indegne”. “Una Chiesa con poca attenzione alla dottrina non è più pastorale, è solo più ignorante”.

Bologna – «Credo che vadano chiarite diverse cose. La lettera – e i dubia allegati – è stata lungamente riflettuta, per mesi, e lungamente discussa tra di noi. Per quanto mi riguarda, è stata anche lungamente pregata davanti al Santissimo Sacramento». Il cardinale Carlo Caffarra premette questo, prima di iniziare la lunga conversazione con Il Foglio sull’ormai celebre lettera “dei quattro cardinali” inviata al Papa per chiedergli chiarimenti in relazione all’Amoris laetitìa, l’esortazione che ha tirato le somme del doppio Sinodo sulla famiglia e che tanto dibattito – non sempre con garbo ed eleganza – ha scatenato dentro e fuori le mura vaticane. «Eravamo consapevoli che il gesto che stavamo compiendo era molto serio. Le nostre preoccupazioni erano due. La prima era di non scandalizzare i piccoli nella fede. Per noi pastori questo è un dovere fondamentale. La seconda preoccupazione era che nessuna persona, credente o non credente, potesse trovare nella lettera espressioni che anche lontanamente suonassero come una benché minima mancanza di rispetto verso il Papa. Il testo finale quindi è il frutto di parecchie revisioni: testi rivisti, rigettati, corretti».

Fatte queste premesse, Caffarra entra in materia. «Che cosa ci ha spinto a questo gesto? Una considerazione di carattere generale-strutturale e una di carattere contingente-congiunturale. Iniziamo dalla prima. Esiste per noi cardinali il dovere grave di consigliare il Papa nel governo della Chiesa. È un dovere, e i doveri obbligano. Di carattere più contingente, invece, vi è il fatto – che solo un cieco può negare – che nella Chiesa esiste una grande confusione, incertezza, insicurezza causate da alcuni paragrafi di Amoris laetitìa. In questi mesi sta accadendo che sulle stesse questioni fondamentali riguardanti l’economia sacramentale (matrimonio, confessione ed eucaristia) e la vita cristiana, alcuni vescovi hanno detto A, altri hanno detto il contrario di A. Con l’intenzione di interpretare bene gli stessi testi».

E «questo è un fatto, innegabile, perché i fatti sono testardi, come diceva David Hume. La via di uscita da questo “conflitto di interpretazioni” era il ricorso ai criteri interpretativi teologici fondamentali, usando i quali penso che si possa ragionevolmente mostrare che Amoris laetitìa non contraddice Famìliaris consortio. Personalmente, in incontri pubblici con laici e sacerdoti ho sempre seguito questa via». Non è bastato, osserva l’arcivescovo emerito di Bologna. «Ci siamo resi conto che questo modello epistemologico non era sufficiente. Il contrasto tra queste due interpretazioni continuava. C’era un solo modo per venirne a capo: chiedere all’autore del testo interpretato in due maniere contraddittorie qual è l’interpretazione giusta. Non c’è altra via. Si poneva, di seguito, il problema del modo con cui rivolgersi al Pontefice. Abbiamo scelto una via molto tradizionale nella Chiesa, i cosiddetti dubia». Perché? «Perché si trattava di uno strumento che, nel caso in cui secondo il suo sovrano giudizio il Santo Padre avesse voluto rispondere, non lo impegnava in risposte elaborate e lunghe. Doveva solo rispondere “Sì” o “No”. E rimandare, come spesso i Papi hanno fatto, ai provati autori (in gergo: probati auctores) o chiedere alla Dottrina della fede di emanare una dichiarazione congiunta con cui spiegare il Sì o il No. Ci sembrava la via più semplice. L’altra questione che si poneva era se farlo in privato o in pubblico. Abbiamo ragionato e convenuto che sarebbe stata una mancanza di rispetto rendere tutto pubblico fin da subito. Così si è fatto in modo privato, e solo quando abbiamo avuto la certezza che il Santo Padre non avrebbe risposto, abbiamo deciso di pubblicare».

È questo uno dei punti su cui maggiormente s’è discusso, con relative polemiche assortite. Da ultimo, è stato il cardinale Gerhard Ludwig Muller, prefetto dell’ex Sant’Uffizio, a giudicare sbagliata la pubblicazione della lettera. Caffarra spiega: «Abbiamo interpretato il silenzio come autorizzazione a proseguire il confronto teologico. E, inoltre, il problema coinvolge così profondamente sia il magistero dei vescovi (che, non dimentichiamolo, lo esercitano non per delega del Papa ma in forza del sacramento che hanno ricevuto) sia la vita dei fedeli. Gli uni e gli altri hanno diritto di sapere. Molti fedeli e sacerdoti dicevano “ma voi cardinali in una situazione come questa avete l’obbligo di intervenire presso il Santo Padre. Altrimenti per che cosa esistete se non aiutate il Papa in questioni così gravi?”. Cominciava a farsi strada lo scandalo di molti fedeli, quasi che noi ci comportassimo come i cani che non abbaiano di cui parla il Profeta. Questo è quanto sta dietro a quelle due pagine».

Eppure le critiche sono piovute, anche da confratelli vescovi o monsignori di curia: «Alcune persone continuano a dire che noi non siamo docili al magistero del Papa. È falso e calunnioso. Proprio perché non vogliamo essere indocili abbiamo scritto al Papa. Io posso essere docile al magistero del Papa se so cosa il Papa insegna in materia di fede e di vita cristiana. Ma il problema è esattamente questo: che su dei punti fondamentali non si capisce bene che cosa il Papa insegna, come dimostra il conflitto di interpretazioni fra vescovi. Noi vogliamo essere docili al magistero del Papa, però il magistero del Papa deve essere chiaro. Nessuno di noi – dice l’arcivescovo emerito di Bologna – ha voluto “obbligare” il Santo Padre a rispondere: nella lettera abbiamo parlato di sovrano giudizio. Semplicemente e rispettosamente abbiamo fatto domande. Non meritano infine attenzione le accuse di voler dividere la Chiesa. La divisione, già esistente nella Chiesa, è la causa della lettera, non il suo effetto. Cose invece indegne dentro la Chiesa sono, in un contesto come questo soprattutto, gli insulti e le minacce di sanzioni canoniche».

Nella premessa alla lettera si constata «un grave smarrimento di molti fedeli e una grande confusione in merito a questioni assai importanti per la vita della Chiesa». In che cosa consistono, nello specifico, la confusione e lo smarrimento? Risponde Caffarra: «Ho ricevuto la lettera di un parroco che è una fotografia perfetta di ciò che sta accadendo. Mi scriveva: “Nella direzione spirituale e nella confessione non so più che cosa dire. Al penitente che mi dice: vivo a tutti gli effetti come marito con una donna che è divorziata e ora mi accosto all’Eucarestia, propongo un percorso, in ordine a correggere questa situazione. Ma il penitente mi ferma e risponde subito: guardi, padre, il Papa ha detto che posso ricevere l’eucaristia, senza il proposito di vivere in continenza. Io non ne posso più di questa situazione. La Chiesa mi può chiedere tutto, ma non di tradire la mia coscienza. E la mia coscienza fa obiezione a un supposto insegnamento pontificio di ammettere all’eucaristia, date certe circostanze, chi vive more uxorio senza essere sposato”. Così scriveva il parroco. La situazione di molti pastori d’anime, intendo soprattutto i parroci – osserva il cardinale – è questa: si ritrovano sulle spalle un peso che non sono in grado di portare. È a questo che penso quando parlo di grande smarrimento. E parlo dei parroci, ma molti fedeli restano ancor più smarriti. Stiamo parlando di questioni che non sono secondarie. Non si sta discutendo se il pesce rompe o non rompe l’astinenza. Si tratta di questioni gravissime per la vita della Chiesa e per la salvezza eterna dei fedeli. Non dimentichiamolo mai: questa è la legge suprema nella Chiesa, la salvezza eterna dei fedeli. Non altre preoccupazioni. Gesù ha fondato la sua Chiesa perché i fedeli abbiano la vita eterna, e l’abbiano in abbondanza».

La divisione cui si riferisce il cardinale Carlo Caffarra è originata innanzitutto dall’interpretazione dei paragrafi di Amoris laetitia che vanno dal numero 300 al 305. Per molti, compresi diversi vescovi, qui si trova la conferma di una svolta non solo pastorale bensì anche dottrinale. Altri, invece, che il tutto sia perfettamente inserito e in continuità con il magistero precedente. Come si esce da tale equivoco?
«Farei due premesse molto importanti. Pensare una prassi pastorale non fondata e radicata nella dottrina significa fondare e radicare la prassi pastorale sull’arbitrio. Una Chiesa con poca attenzione alla dottrina non è una Chiesa più pastorale, ma è una Chiesa più ignorante. La Verità di cui noi parliamo non è una verità formale, ma una Verità che dona salvezza eterna: Veritas salutaris, in termini teologici. Mi spiego. Esiste una verità formale. Per esempio, voglio sapere se il fiume più lungo del mondo è il Rio delle Amazzoni o il Nilo. Risulta che è il Rio delle Amazzoni. Questa è una verità formale. Formale significa che questa conoscenza non ha nessuna relazione con il mio modo di essere libero. Anche se la risposta fosse stata il contrario, non sarebbe cambiato nulla sul mio modo di essere libero. Ma ci sono verità che io chiamo esistenziali. Se è vero – come Socrate aveva già insegnato – che è meglio subire un’ingiustizia piuttosto che compierla, enuncio una verità che provoca la mia libertà ad agire in modo molto diverso che se fosse vero il contrario. Quando la Chiesa parla di verità – aggiunge – parla di verità del secondo tipo, la quale, se obbedita dalla libertà, genera la vera vita. Quando sento dire che è solo un cambiamento pastorale e non dottrinale, o si pensa che il comandamento che proibisce l’adulterio sia una legge puramente positiva che può essere cambiata (e penso che nessuna persona retta possa ritenere questo), oppure significa ammettere sì che il triangolo ha generalmente tre lati, ma che c’è la possibilità di costruirne uno con quattro lati. Cioè, dico una cosa assurda. Già i medievali, dopotutto, dicevano: theoria sine pratii, currus sine ati; pratis sine tìieoria, caecus in via».

La seconda premessa che l’arcivescovo di Bologna fa riguarda «il grande tema dell’evoluzione della dottrina, che ha sempre accompagnato il pensiero cristiano. E che sappiamo è stato ripreso in maniera splendida dal beato John Henry Newman. Se c’è un punto chiaro, è che non c’è evoluzione laddove c’è contraddizione. Se io dico che A è B e poi dico che A non è B, la seconda proposizione non sviluppa la prima ma la contraddice. Già Aristotele aveva giustamente insegnato che enunciare una proposizione universale affermativa (es. ogni adulterio è ingiusto) e allo stesso tempo una proposizione particolare negativa avente lo stesso soggetto e predicato (es. qualche adulterio non è ingiusto), non si fa un’eccezione alla prima. La si contraddice. Alla fine, se volessi definire la logica della vita cristiana, userei l’espressione di Kierkegaard: “Muoversi sempre, rimanendo sempre fermi nello stesso punto”». Il problema, aggiunge il porporato, «è di vedere se i famosi paragrafi nn. 300-305 di Amoris laetitia e la famosa nota n. 351 sono o non sono in contraddizione con il magistero precedente dei Pontefici che hanno affrontato la stessa questione. Secondo molti vescovi, è in contraddizione. Secondo molti altri vescovi, non si tratta di contraddizione ma di uno sviluppo. Ed è per questo che abbiamo chiesto una risposta al Papa». Si arriva così al punto più conteso e che tanto ha animato le discussioni sinodali: la possibilità di concedere ai divorziati e risposati civilmente il riaccostamento all’eucaristia. Cosa che non trova esplicitamente spazio in Amoris laetitia, ma che a giudizio di molti è un fatto implicito che rappresenta nulla di più se non un’evoluzione rispetto al n. 84 dell’esortazione Familiaris consortio di Giovanni Paolo II.

«Il problema nel suo nodo è il seguente», argomenta Caffarra: «Il ministro dell’eucaristia (di solito il sacerdote) può dare l’eucaristia a una persona che vive more uxorio con una donna o con uomo che non è sua moglie o suo marito, e non intende vivere nella continenza? Le risposte sono solo due: Sì oppure No. Nessuno per altro mette in questione che Familiaris consortio, Sacramentum Caritatis, il Codice di diritto canonico, e il Catechismo della Chiesa cattolica alla domanda suddetta rispondano No. Un No valido finché il fedele non propone di abbandonare lo stato di convivenza more uxorio. Amoris laetitia ha insegnato che, date certe circostanze precise e fatto un certo percorso, il fedele potrebbe accostarsi all’eucaristia senza impegnarsi alla continenza? Ci sono vescovi che hanno insegnato che si può. Per una semplice questione di logica, si deve allora anche insegnare che l’adulterio non è in sé e per sé male. Non è pertinente appellarsi all’ignoranza o all’errore a riguardo dell’indissolubilità del matrimonio: un fatto purtroppo molto diffuso. Questo appello ha un valore interpretativo, non orientativo. Deve essere usato come metodo per discernere l’imputabilità delle azioni già compiute, ma non può essere principio per le azioni da compiere. Il sacerdote – dice il cardinale – ha il dovere di illuminare l’ignorante e correggere l’errante».

«Ciò che invece Amoris laetitia ha portato di nuovo su tale questione, è il richiamo ai pastori d’anime di non accontentarsi di rispondere No (non accontentarsi però non significa rispondere Sì), ma di prendere per mano la persona e aiutarla a crescere fino al punto che essa capisca che si trova in una condizione tale da non poter ricevere l’eucaristia, se non cessa dalle intimità proprie degli sposi. Ma non è che il sacerdote possa dire “aiuto il suo cammino dandogli anche i sacramenti”. Ed è su questo che nella nota n. 351 il testo è ambiguo. Se io dico alla persona che non può avere rapporti sessuali con colui che non è suo marito o sua moglie, però per intanto, visto che fa tanto fatica, può averne… solo uno anziché tre alla settimana, non ha senso; e non uso misericordia verso questa persona. Perché per porre fine a un comportamento abituale – un habitus, direbbero i teologi – occorre che ci sia il deciso proposito di non compiere più nessun atto proprio di quel comportamento. Nel bene c’è un progresso, ma fra il lasciare il male e iniziare a compiere il bene, c’è una scelta istantanea, anche se lungamente preparata. Per un certo periodo Agostino pregava: “Signore, dammi la castità, ma non subito”».

A scorrere i dubia, pare di comprendere che in gioco, forse più di Familiaris consortio, ci sia Veritatis splendor. È così? «Sì», risponde Carlo Caffarra. «Qui è in questione ciò che insegna Veritatis splendor. Questa enciclica (6 agosto 1993) è un documento altamente dottrinale, nelle intenzioni del Papa san Giovanni Paolo II, al punto che – cosa eccezionale ormai nelle encicliche – è indirizzata solo ai vescovi in quanto responsabili della fede che si deve credere e vivere (cfr. n° 5). A essi, alla fine, il Papa raccomanda di essere vigilanti circa le dottrine condannate o insegnate dall’enciclica stessa. Le une perché non si diffondano nelle comunità cristiane, le altre perché siano insegnate (cfr. n° 116). Uno degli insegnamenti fondamentali del documento è che esistono atti i quali possono per sé stessi ed in se stessi, a prescindere dalle circostanze in cui sono compiuti e dallo scopo che l’agente si propone, essere qualificati disonesti. E aggiunge che negare questo fatto può comportare di negare senso al martirio (cfr. nn. 90-94). Ogni martire infatti – sottolinea l’arcivescovo emerito di Bologna – avrebbe potuto dire: “Ma io mi trovo in una circostanza… in tali situazioni per cui il dovere grave di professare la mia fede, o di affermare l’intangibilità di un bene morale, non mi obbliga più”. Si pensi alle difficoltà che la moglie di Tommaso Moro faceva a suo marito già condannato in prigione: “Hai doveri verso la famiglia, verso i figli”. Non è, quindi, solo un discorso di fede. Anche se uso la sola retta ragione, vedo che negando resistenza di atti intrinsecamente disonesti, nego che esista un confine oltre il quale i potenti di questo mondo non possono e non devono andare. Socrate è stato il primo in occidente a comprendere questo. La questione dunque è grave, e su questo non si possono lasciare incertezze. Per questo ci siamo permessi di chiedere al Papa di fare chiarezza, poiché ci sono vescovi che sembrano negare tale fatto, richiamandosi ad Amoris laetitia. L’adulterio infatti è sempre rientrato negli atti intrinsecamente cattivi. Basta leggere quanto dice Gesù al riguardo, san Paolo e i comandamenti dati a Mosè dal Signore».

Ma c’è ancora spazio, oggi, per gli atti cosiddetti “intrinsecamente cattivi”. O, forse, è tempo di guardare più all’altro lato della bilancia, al fatto che tutto, dinanzi a Dio, può essere perdonato? Attenzione, dice Caffarra: «Qui si fa una grande confusione. Tutti i peccati e le scelte intrinsecamente disoneste possono essere perdonate. Dunque “intrinsecamente disonesti” non significa “imperdonabili”. Gesù tuttavia non si accontenta di dire all’adultera: “Neanch’io ti condanno”. Le dice anche: “Va’ e d’ora in poi non peccare più” (Gv. 8,10). San Tommaso, ispirandosi a sant’Agostino, fa un commento bellissimo, quando scrive che “Avrebbe potuto dire: va’ e vivi come vuoi e sii certa del mio perdono. Nonostante tutti i tuoi peccati, io ti libererò dai tormenti dell’inferno. Ma il Signore che non ama la colpa e non favorisce il peccato, condanna la colpa… dicendo: e d’ora in poi non peccare più. Appare così quanto sia tenero il Signore nella sua misericordia e giusto nella sua Verità” (cfr. Comm. a Gv. 1139). Noi siamo veramente, non per modo di dire, liberi davanti al Signore. E quindi il Signore non ci butta dietro il suo perdono. Ci deve essere un mirabile e misterioso matrimonio tra l’infinita misericordia di Dio e la libertà dell’uomo, il quale deve convertirsi se vuole essere perdonato».

Chiediamo al cardinale Caffarra se una certa confusione non derivi anche dalla convinzione, radicata pure tra tanti pastori, che la coscienza sia una facoltà per decidere autonomamente riguardo ciò che è bene e ciò che è male, e che in ultima istanza la parola decisiva spetti alla coscienza del singolo. «Ritengo che questo sia il punto più importante di tutti», risponde. «È il luogo dove ci incontriamo e scontriamo con la colonna portante della modernità. Cominciamo col chiarire il linguaggio. La coscienza non decide, perché essa è un atto della ragione; la decisione è un atto della libertà, della volontà. La coscienza è un giudizio in cui il soggetto della proposizione che lo esprime è la scelta che sto per compiere o che ho già compiuto, e il predicato è la qualificazione morale della scelta. È dunque un giudizio, non una decisione. Naturalmente, ogni giudizio ragionevole si esercita alla luce di criteri, altrimenti non è un giudizio, ma qualcosa d’altro. Criterio è ciò in base a cui io affermo ciò che affermo e nego ciò che nego. A questo punto risulta particolarmente illuminante un passaggio del Trattato sulla coscienza morale del beato Rosmini: “C’è una luce che è nell’uomo e c’è una luce che è l’uomo. La luce che è nell’uomo è la legge di Verità e la grazia. La luce che è l’uomo è la retta coscienza, poiché l’uomo diventa luce quando partecipa alla luce della legge di Verità mediante la coscienza a quella luce confermata”. Ora, di fronte a questa concezione della coscienza morale si oppone la concezione che erige come tribunale inappellabile della bontà o malizia delle proprie scelte la propria soggettività. Qui, per me – dice il porporato – c’è lo scontro decisivo tra la visione della vita che è propria della Chiesa (perché è propria della Rivelazione divina) e la concezione della coscienza propria della modernità».

«Chi ha visto questo in maniera lucidissima – aggiunge – è stato il beato Newman. Nella famosa Lettera al duca di Norfolk, dice: “La coscienza è un vicario aborigeno del Cristo. Un profeta nelle sue informazioni, un monarca nei suoi ordini, un sacerdote nelle sue benedizioni e nei suoi anatemi. Per il gran mondo della filosofia di oggi, queste parole non sono che verbosità vane e sterili, prive di un significato concreto. Al tempo nostro ferve una guerra accanita, direi quasi una specie di cospirazione contro i diritti della coscienza”. Più avanti aggiunge che “nel nome della coscienza si distrugge la vera coscienza”. Ecco perché fra i cinque dubia il dubbio numero cinque è il più importante. C’è un passaggio di Amoris laetitia, al n° 303, che non è chiaro; sembra – ripeto: sembra – ammettere la possibilità che ci sia un giudizio vero della coscienza (non invincibilmente erroneo; questo è sempre stato ammesso dalla Chiesa) in contraddizione con ciò che la Chiesa insegna come attinente al deposito della divina Rivelazione. Sembra. E perciò abbiamo posto il dubbio al Papa».
«Newman – ricorda Caffarra – dice che “se il Papa parlasse contro la coscienza presa nel vero significato della parola, commetterebbe un vero suicidio, si scaverebbe la fossa sotto i piedi”. Sono cose di una gravità sconvolgente. Si eleverebbe il giudizio privato a criterio ultimo della verità morale. Non dire mai a una persona: “Segui sempre la tua coscienza”, senza aggiungere sempre e subito: “Ama e cerca la verità circa il bene”. Gli metteresti nelle mani l’arma più distruttiva della sua umanità».

Fonte:   Il Foglio

di Matteo Matzuzzi  -  Il Foglio

sabato 14 gennaio 2017

La Chiesa, in questi tempi di apostasia strisciante


Quando leggo articoli come quello che riporto sotto, spesso e volentieri, al termine della lettura mi chiedo: ma quanti di noi Cattolici siamo consapevoli dei momenti drammatici che stiamo vivendo (in rapporto non alle questioni geopolitiche, economiche e sociali, che ci stanno travolgendo e avvelenando la società e la vita nostra e dei nostri figli e che sono causa ed effetto di tutto ciò che vediamo sotto i nostri occhi); i momenti drammatici di cui parlo e denuncio la profonda crisi, sono quelli dei nostri giorni e che riguardano propriamente la Fede, la Chiesa e la vita stessa di ognuno di noi - se ci crediamo - cose di cui sempre più spesso si dibatte come già ne ho scritto negli ultimi due Post (qui) e (qui). L'articolo che riporto oggi (e se lo riporto è perché ne condivido in gran parte parole e giudizi) denuncia proprio i momenti drammatici che viviamo e che molti, vuoi per disattenzione,  vuoi per superficialità o semplicemente indotti in errore come pecore che seguono un falso pastore,  non riescono a cogliere.


Che cos’è la Chiesa?

di Francesco Lamendola    -   ilcorrieredelleregioni.it


È necessario averlo ben chiaro, specialmente di questi tempi: tempi di apostasia diffusa, strisciante, e, spesso, veicolata proprio dall’alto, dai pastori, da quelli che dovrebbero custodire la fede e aiutare il loro gregge a coltivarla e conservarla. I pastori, infatti, non sono i proprietari del gregge, ma dei semplici operai: il padrone, il solo e unico, è Gesù Cristo. Dunque, bisogna saper bene che cos’è la Chiesa, per poterla più facilmente riconoscere e distinguere da ciò che chiesa non è: e questo è un problema nuovo, che non esisteva fino a meno di due generazioni fa, perché la Chiesa, nel corso dei secoli, ha mancato più volte sul piano morale, mai, però, su quello dottrinale; sul piano dottrinale, anche i peggiori papi della storia, come Alessandro VI Borgia, son rimasti nel solco dell’ortodossia e, sia pure indegnamente, hanno preservato la sana dottrina da errori ed eresie.

- Storicamente, la Chiesa è la prosecuzione dell’opera iniziata da Gesù sulla terra con la sua vita pubblica, con la sua predicazione, con i miracoli da Lui fatti, con l’annunzio del Regno di Dio, con la sua Passione, Morte e Resurrezione; opera che è stata proseguita dai suoi apostoli, poi dalle chiese da essi fondate, su, su, lungo i secoli, fino ad arrivare al presente.

- Spiritualmente, la Chiesa non è solo quella visibile e attuale, la Chiesa militante, ma è anche la Chiesa purgante (le anime dei defunti che si stanno purificando) e la Chiesa trionfante (le anime dei beati, con gli Angeli e i Santi in Paradiso): perché la comunione dei santi non conosce confini di spazio o di tempo, e include persino le anime dei profeti e di quei giusti che vissero prima della nascita di Cristo, e che ne preannunciarono e ne prepararono la venuta.

- Idealmente, la Chiesa non è solo la struttura gerarchica, con a capo il papa quale rappresentante di Cristo in terra, distinta in laicato e clero, e questo, a sua volta, in clero regolare e secolare, ma è anche la comunità dei fedeli, laddove essi vivono, si riuniscono, pregano insieme, anche senza clero, senza un luogo consacrato, senza liturgia, ad esempio in quei Paesi ove il cristianesimo non gode della libertà religiosa ed è costretto a tenersi nascosto, clandestino, come lo fu, del resto, e non per un breve periodo, ma per oltre due secoli, al tempo degl’imperatori romani.

È scritto infatti nel Vangelo di Matteo (18, 19-20):
In verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa,  il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono lì in mezzo a loro.

Naturalmente, se un piccolo gruppo di cristiani, o anche due soli cristiani, si riuniscono e pregano nel nome di Gesù, lì non si trova tutta la Chiesa, ma una parte della Chiesa: la parte non è il tutto, ma non è neppure il nulla; la parte è qualche cosa. L’errore è quando la parte vuol assumere su di sé la prerogativa della totalità: come quando un certo numero di cristiani si organizzano e si denominano Noi siamo Chiesa, come se lo fossero loro soltanto. Inoltre, non basta riunirsi nel nome di Gesù: bisogna che ciò avvenga in perfetta sintonia con Lui, rinunciando ad ogni scopo terreno, a ogni finalità ulteriore e ad ogni interesse egoistico, fosse pure quello di sentirsi belli, buoni e bravi, di sentirsi ”giusti”. In tal caso non si avrebbe la Chiesa, o una cellula, un nucleo della Chiesa, bensì una sua contraffazione, una usurpazione, un abuso gravissimo. Insomma, è necessario che quei due, o tre, o più, si pongano interamente sotto la volontà di Gesù Cristo, che si affidino a Lui, che non desiderino altro da quel che Lui vuole. Infatti, non basta dire: Signore, Signore!, per essere seguaci di Cristo, come ammonisce il divino Maestro; bisogna fare la volontà del Padre suo, seguendo sino in fondo l’esempio che Egli stesso ha dato. 

Ma che cosa significa “seguire l’esempio di Gesù”? Significa che bisogna lasciar morire in sé l’uomo vecchio, centrato sull’io, sulla ricerca dei piaceri e sulla volontà di scansare la sofferenza, e fare come Lui ha fatto: osservare il comandamento dell’amore, un comandamento nuovo, perché tutti si riempiono la bocca con la parola amore, ma l’amore come lo ha insegnato e praticare Gesù significa una cosa sola: amare Dio con tutto il cuore, con tutta la mente, con tutta la volontà, e quindi servirlo e adorarlo, e amare il prossimo come se stessi. E per amare Dio, bisogna odiare tutto ciò che si oppone a quell’amore, a cominciare dall’amor di sé. L’amor di sé e il debito amore verso se stessi non sono la stessa cosa: l’amor di sé è egoistico e narcisista, dice sempre ”io” prima di qualunque altra cosa; il giusto amore di se stessi equivale a voler bene a noi stessi e a quella vita che ci è stata data, non perché la consideriamo come una cosa nostra, ma perché la trasformiamo in uno strumento per la nascita dell’uomo nuovo. Chi ama se stesso più di Gesù, non sarà un buon cristiano, tanto meno un buon sacerdote. Chi ama se stesso in maniera narcisistica, usa il Vangelo per glorificare se stesso; adopera le parole di Gesù, ma solo per mettersi in mostra; usurpa l’abito sacerdotale, o religioso, per attirare l’attenzione su se stesso. Un uomo siffatto non annuncerà il Vangelo di Gesù, ma il vangelo secondo me, una sua caricatura, dove le parole di Gesù restano, ma prive di risonanza e come svuotate di significato, perché le parole di Gesù non sono un’etichetta da mettere su altri discorsi, aventi al centro sempre e solo l’uomo, ma proprio quelle che le due fonti della Scrittura e della Tradizione ci hanno tramandato, e che, insieme, costituiscono il corpus della Rivelazione cristiana. Ce ne sono anche troppi che gridano, dal pulpito, Signore, Signore!; ma non sono di Gesù, perché, se lo fossero, ciò trasparirebbe dai loro atti, e sarebbe testimoniato dalla conversione della loro vita; né si permetterebbero d’insegnare cose diverse, e a volte perfino contrarie, a quelle che Gesù ha insegnato, e che sono testimoniate dalla Scrittura e dalla Tradizione. 

Oggi, purtroppo, la cosa è divenuta frequente: vi sono dei cristiani, o sedicenti tali, riuniti insieme; e con essi vi è perfino un membro del clero, un sacerdote, magari un vescovo; pregano e leggono il Vangelo, ma poi dichiarano cose contrarie al Vangelo, o s’inventano cose che nel Vangelo non vi sono, e che sono incompatibili con la dottrina di Gesù. Oppure tacciono aspetti essenziali del Vangelo, li eliminano, li espungono con il loro silenzio: per esempio, non parlano più del peccato, della vita eterna, del giudizio, dell’inferno e del paradiso; non parlano più del male, della necessità di pregare sempre, di chiedere l’aiuto di Dio contro le insidie del maligno, di ricevere la grazia ed essere preservati dalla tentazione; parlano solo di cose terrene, in se stesse anche legittime, ma senza alcuna dimensione spirituale: della giustizia, della libertà, dei diritti, dell’emancipazione, dell’integrazione, dell’accoglienza, della solidarietà, del rispetto dell’altro (peraltro, a senso unico). Non parlano più della divinità di Cristo, o vi accennano di sfuggita, come a una cosa secondaria; non parlano della Sua missione divina, della Sua resurrezione e della Sua redenzione: sembra, a sentirli, che Gesù sia stato, semplicemente, uno dei tanti predicatori, saggi e fondatori di religioni; pare che sia stato semplicemente un uomo. 

Ma, come dice san Paolo, se Gesù non è risorto dai morti, allora è la falsa la dottrina cristiana, e vana la speranza dei fedeli; allora, sarebbe tutto un doloroso inganno. Ma se Cristo è risorto, ciò vuol dire che non era un uomo: era il Figlio di Dio e Dio Egli stesso; era la seconda Persona della santissima Trinità. Dunque, per fare Chiesa, per essere Chiesa, con la “c” maiuscola, ossia la Chiesa di Nostro Signore Gesù Cristo e non una qualsiasi chiesa di un qualsiasi culto, fra i tanti che si trovano in offerta speciale nel gran supermercato della modernità consumistica, non basta dire che ci si riunisce nel nome di Gesù, ma bisogna che ci sia lo Spirito di Gesù; e non uno spirito qualsiasi, uno spirito mondano, ma lo Spirito Santo, la terza Persona della santissima Trinità: il Paraclito, il Consolatore, che ispira, illumina, fortifica, protegge, sostiene, incoraggia, assiste in ogni modo i fedeli, e insegna loro, come è scritto nel Vangelo, quel che devono dire, allorché si trovano a dover parlare e a dover giustificare la loro fede. Pertanto, chi non parla secondo l’ispirazione dello Spirito Santo, non parla in nome di Dio; chi legge il Vangelo e lo “interpreta” secondo un‘altra intenzione, secondo un altro spirito, uno spirito mondano e non quello che Gesù ha promesso ai suoi discepoli, poco prima di lasciarli, durante l’Ultima Cena, costui non appartiene alla Chiesa di Cristo, ma ad un’altra chiesa. E siccome si spaccia per un membro della Chiesa di Cristo, ma non lo è, ciò significa che egli appartiene ad una neo-chiesa, o ad una contro-chiesa, che sta cercando di sedurre e d’ingannare i credenti, e dunque non appartiene ai figli di Dio, ma, piuttosto, ai figli del diavolo. Il diavolo, infatti, è il grande bugiardo e il gran seduttore; ribelle e omicida, seminatore di discordia, è l’antagonista dell’opera di Gesù e il nemico del progetto amorevole di Dio, mirante a far sì che tutti gli uomini possano rettamente conoscerlo, amarlo e servirlo. Ha osato tentare perfino Gesù nel deserto; da allora, ha fatto di tutto per ritardare, ostacolare, inquinare l’opera di Cristo, e non cessa mai di tentare gli uomini, di solito con l’arma prediletta dell’inganno, e facendo leva sul loro punto più fragile: l’orgoglio, l’invidia verso il Creatore.

Siamo perfettamente consapevoli di dire una cosa molto grave. Stiamo affermando che un cristiano, oggi, non ha più la sicurezza di entrare in una chiesa, e di sentirvi annunciare la Parola di Dio; di entrare a far parte di una comunità ecclesiale, e di trovarvi lo Spirito di Dio; di ascoltare la voce dei suoi pastori, e di riconoscere in essa l’autentica voce del Buon pastore, cioè di Gesù stesso. Potrebbe accadergli, e di fatto accade, d’imbattersi in una chiesa che, dietro le apparenze della Chiesa di Gesù Cristo, della Chiesa cattolica, apostolica e romana, e del suo autentico Magistero, quale si è espresso per secoli e secoli, in perfetta fedeltà e continuità con la Tradizione (perfetta fedeltà teologica, intendiamo dire; perché, sul piano morale, non si può dire altrettanto, o non sempre), è, in realtà, una cosa diversa, che dice cose diverse, e pratica una morale diversa da quella di Gesù Cristo, degli apostoli, dei santi, dei padri e dei dottori della Chiesa. È una situazione drammatica, ma non si può fingere che il problema non esista: esiste, eccome.

Da alcuni anni si assiste a scene sconcertanti: a messe che non sono più la santa Messa; a esternazioni di vescovi e cardinali che non sono in linea con il secolare Magistero della Chiesa cattolica; a prediche, atteggiamenti, modelli, che non riflettono il genuino spirito della Chiesa di Gesù, lo Spirito con la lettera maiuscola. In nome di un non meglio definito “spirito del Concilio”, i novatori si son presi la libertà di cambiare tutto, di stravolgere tutto, di avallare e presentare come cristiana una chiesa che non lo è più, e tanto meno cattolica. A sentire costoro, l’aborto e l’eutanasia sono cose che, a certe condizioni, si possono anche ammettere, o almeno capire; le unioni omosessuali e l’adozione di bambini da parte di esse, una realtà quasi normale; il divorzio è poco più che un peccato veniale, in attesa che venga derubricato a semplice debolezza umana; l’abbandono del matrimonio cristiano e la sua sostituzione con la convivenza, un passaggio necessario verso la laicità; l’accoglienza di milioni di profughi africani e asiatici, veri e soprattutto falsi, è un dovere ineludibile del buon cristiano, anche se spinto fino all’odio di sé e alla vergogna della propria identità: per esempio, essi ritengono giusto e ragionevole nascondere i simboli cristiani, a cominciare dalla croce, per non offendere la sensibilità altrui. Ebbene: nessuna di queste posizioni, nessuno di questi eventuali insegnamenti può essere legittimamente presentato come cattolico; pertanto, chi lo fa, lo sta facendo in perfetta mala fede.

È, questo, un pensiero che lascia senza fiato, che dà le vertigini. Nei duemila anni della sua storia, mai la Chiesa cattolica si era trovata in un simile frangente. Nemmeno quando era perseguitata: e non occorre andare indietro fino al’Impero Romano, basta restare nell’ambito della storia del Novecento; anzi, basta guardare al presente, alle povere Chiese cristiane della Siria e dell’Iraq, per esempio, sottoposte alla prova suprema del martirio di massa. Mai, però, vi era stata una apostasia strisciante così insidiosa, così radicale, così “tranquilla”. Stiamo assistendo alla banalizzazione dell’eresia; gli eretici non ci sono più. Sono tutti ortodossi: e chi oserebbe evocare i fantasmi del tribunale della Inquisizione? Solo che non è così: l’eresia esiste, ed è talmente ampia da coinvolgere quasi tutti gli aspetti della fede cristiana: perciò si deve parlare di apostasia. Del resto, non pochi sedicenti cristiani, membri del clero compresi, lo dicono apertamente: bisogna andare oltre le religioni, bisogna fondare il culto universale dell’umanità. Ma questa è la gnosi, di certo non è il cristianesimo. La Chiesa cattolica è infiltrata da gnostici, da vescovi e cardinali massoni, il cui scopo ultimo è abolire, di fatto, il Vangelo di Gesù. Non ci chiedano, per favore, di stare a guardare. San Paolo non rimase a guardare, quando Pietro, sbagliando, diede l’impressione che i pagani, per farsi cristiani, dovessero prima farsi giudei. Il cristiano ha un dovere essenziale: custodire la fede…


domenica 8 gennaio 2017

Siamo in grande pericolo, ma Gesù calmerà la tempesta




Per tutti coloro che amano la Chiesa di Cristo, è evidente che questi tempi siano tempestosi; la Chiesa come una fragile barca, naviga in questo mare in tempesta e sembra rischiare il naufragio, tutti sappiamo che sulla barca c'è Gesù e che prima che affondi, Lui calmerà la tempesta (Mc. 4, 37-41), ma intanto noi siamo su quella barca e... balliamo. Cosa ci sta facendo presagire di essere in grave pericolo? Ma come? non sappiamo distinguere i segni dei tempi? (Mt. 16, 1-4),  basta guardarsi intorno e vedere la confusione dottrinale, la fede relativizzata, le lotte che dividono la Chiesa,  tali da mostrare "Cardinali opporsi a Cardinali e Vescovi a Vescovi", tutte cose già annunciate ma che non sono state ascoltate o credute ed ora manifeste con fazioni che si accusano reciprocamente di eresia,  di scisma o apostasia; tradizionalisti contro modernisti, chiesa pre-conciliare e chiesa post-conciliare, e così via mostrando al mondo ognuno il lato peggiore; si può fare qualcosa per tenere a galla la barca in attesa dell'intervento di Gesù? l'articolo che voglio far leggere prova a dare una soluzione, non è detto che sia quella risolutiva.

La terza via


La crisi nella Chiesa è talmente grave che i sani dovrebbero far quadrato. È vero, senza ombra di dubbio. Tuttavia, se mi soffermo a osservare i difetti di certi ambienti tradizionalisti, non è per il gusto di “fare le pulci” agli altri, ma per segnalare gravi pericoli che nascono da un’impostazione tendenzialmente settaria e dall’isolamento in cui si sono deliberatamente rinchiusi. Non si tratta di piccole magagne o di dettagli di secondaria importanza, bensì dell’essenza stessa della vita cristiana; la posta in gioco è l’essere realmente sani dal punto di vista soprannaturale.

L’adesione alla verità oggettiva non può prescindere completamente dalle condizioni del soggetto che deve conoscerla e praticarla. Una tendenza eccessivamente spiccata all’astrazione finisce col perdere di vista la realtà concreta delle persone, che è evidente al semplice buon senso. Un sistema di pensiero apparentemente perfetto (perché ogni cosa è incasellata in un posto preciso e ogni problema ha una soluzione prestabilita) rischia di passar sopra le situazioni effettive degli individui e della loro epoca storica, inquadrandole in una bella cornice ma lasciandole sostanzialmente come sono. Tali considerazioni non sono un cedimento allo storicismo, al relativismo o al soggettivismo, ma una semplice professione di sano realismo.

La tendenza oggettivante e astraente, tipica dell’uomo, legata alla sua propensione a porsi di fronte al mondo come a una realtà da conoscere e trasformare in base alle sue necessità e interessi, ha bisogno di essere contemperata dal senso della vita caratteristico della donna, il cui temperamento materno la rende sensibile alle condizioni delle persone, ai loro bisogni e alle aspirazioni che le abitano. «Non è bene che l’uomo sia solo» (Gen 2, 18): è molto più di un problema di solitudine, è un’esigenza di reciproco completamento. L’essere umano ha pure bisogno, viceversa, di un padre che, distaccandolo dalla madre, lo renda capace di un’esistenza autonoma e di un giudizio che non sia assoggettato ai sentimenti o alle emozioni.

L’equilibrio tra i due atteggiamenti è un’arte che si apprende alla scuola di Gesù e di Maria. Anche l’esercizio del ministero sacerdotale deve comporre armonicamente in sé tratti paterni e materni per poter realmente generare, nutrire ed educare le anime alla vita divina; un eccesso in un senso o nell’altro è comunque deleterio. La scomparsa del padre è un fenomeno che accomuna la società e la Chiesa odierne; di qui la deriva nel sentimentalismo soggettivo, in convincimenti personali tanto arbitrari quanto ottusi e pertinaci, in ambigui e asfissianti rapporti di fusione o di ricatto… È il trionfo di una “maternità” abusiva e deformata che soffoca i propri figli.

Là dove invece prevale un sistema unilateralmente mascolino, le cose non vanno necessariamente meglio per il semplice fatto che si evitano le deviazioni appena menzionate. In questo caso, infatti, la dottrina cristiana rischia di trasformarsi in un’arida costruzione intellettuale che può compiacere l’intelligenza, ma non è realmente accolta nel cuore così da poter plasmare la coscienza; il culto e la preghiera possono ridursi a mera esecuzione di riti e di formule che, per la freddezza e il distacco di chi la compie, si risolve facilmente in una disastrosa controevangelizzazione, specialmente dei più giovani; la vita morale può assumere i contorni di un’indifferente ottemperanza a una disciplina esteriore, che scade rapidamente nell’ipocrisia e nel cinismo. Per crescere in una vita genuinamente cristiana non basta conoscere a memoria gli asserti del catechismo o applicare un metodo di valutazione morale come si trattasse di un’equazione matematica.

Sono forse vaghi rischi o questioni marginali, queste? Chi legge giudichi. Se qualcosa di buono la modernità ha portato, è una maggiore consapevolezza dell’importanza del soggetto, anche nella vita di fede. Riconoscere questo è forse un’apertura al modernismo? Non mi sembra proprio. È piuttosto un’esigenza di fedeltà a quella verità rivelata che deve essere accolta in profondità da persone reali, non da puri spiriti o da astratte entità mentali. L’esigenza “maschile” di obiettività richiede che essa sia presentata per quello che è, non per quello che piace a chi parla o a chi ascolta; l’attenzione “femminile” alle condizioni concrete dei destinatari spinge a cercare il modo più adatto perché essa sia effettivamente recepita e compresa in modo vitale.

L’esperienza bimillenaria della Chiesa, nonché quella diretta di ogni buon evangelizzatore, lo conferma. Non si sono mai ottenuti buoni risultati asfaltando le menti di formule e precetti; sotto lo strato di bitume le male erbe continuano a svilupparsi indisturbate, fino a forarlo… e il giorno in cui questo accade, amare sono le sorprese, specie nella vita di un sacerdote o di un consacrato. È forse meglio – obietterà qualcuno – che l’esistenza di un cattolico (chierico, religioso o laico) sprofondi direttamente nel marcio per l’assenza di qualsiasi regola? Non intendo certo questo: evidenziare un inconveniente non significa approvare quello opposto; vorrei soltanto, se possibile, trovare una via equilibrata. È faticoso, certo, ma chiunque abbia a cuore la salvezza delle anime non se ne può esimere. Tra lo sbraco e l’indottrinamento, perché non tentare con la persuasione?

È indubbio che la liturgia tradizionale trasmetta la fede integra, renda a Dio il culto che gli è gradito e sia più efficace per il bene spirituale dei fedeli; in una parola, è il baluardo della vera religione. Ma mezzo secolo di mistificazioni non si cancella in un attimo. Le persone hanno bisogno di tempo – nonché di una grazia del tutto speciale – per modificare le prospettive e le coordinate della mente e del cuore; chi scrive lo sa per esperienza personale. Vogliamo essere meno pazienti del buon Dio e costringere la gente a un salto mortale? Siamo sicuri che ce la faranno o che, al contrario, non abbandoneranno l’impresa scoraggiati senza neanche la possibilità di tornare a ciò che avevano prima, di cui avremo fatto terra bruciata? La responsabilità è troppo grande; la Chiesa non è una piccola élite riservata a chi ha una buona dose di intellettualismo e di volontarismo – ammesso che capisca qualcosa all’infuori delle istruzioni che riceve in vernacolo, costretto perciò, sospeso com’è sul vuoto, ad aggrapparsi ad esse senza altri appigli… Non credo che il Signore voglia soldatini impassibili e manovrabili a comando: Gloria Dei vivens homo.

Non si tratta di salvare capra e cavoli, ma di cercare una via che sia accessibile al maggior numero possibile di anime. Non si possono mettere i fedeli davanti all’alternativa: o la Messa tradizionale o niente, così come non si può accusare indistintamente tutta l’attuale gerarchia cattolica di essere modernista e di celebrare in modo da far perdere la fede alla gente. È vero che le omissioni presenti nel novus ordo, a lungo andare, possono intaccare la fede fino a dissolverla, specie a causa dello stile celebrativo più diffuso; ma a chi non è in grado di fare subito il salto non si può offrire altro che la nuova Messa celebrata con la mens e lo stile dell’antica (e già questo, per molti, è un trauma). Ci vuole un’infinita pazienza per operare come, del resto, fa Dio con ognuno di noi, prendendo ciascuno per mano là dove si trova e conducendolo, al suo passo, verso il meglio; di colpo non ce la farebbe. Non poniamo perciò alla grazia limiti troppo stretti, come se la sopravvivenza della Chiesa dipendesse da ciò che facciamo noi: il Salvatore è uno solo e la Sposa appartiene a Lui.

martedì 3 gennaio 2017

Il Papa è il vicario di Cristo, solo il vicario



Nella nostra società massmediatica, assetata di notizie, vere o false, quando a parlare è il Papa, non si può dire che il fatto non faccia notizia; subito accorrono "vaticanisti" e troupe televisive da ogni angolo della terra, per prendere nota e "costruirci" poi un bel "pezzo" giornalistico che a seconda delle intenzioni di chi lo scriverà, avrà un taglio amichevole o all'opposto una vena critica più o meno pesante. Delle parole dette dal Papa ognuno poi ne farà una sintesi non sempre aderente al vero e spesso manipolando singole frasi per creare l'effetto voluto. Per avere la certezza di ciò che il Papa abbia detto, ci vengono talvolta, ma non sempre, in aiuto i filmati "in diretta", perché le trascrizioni delle sue parole, capita spesso che siano "addomesticate". E' sempre un problema quello  di riuscire a discernere quello che è stato detto da quello che è stato riportato. In questi anni di pontificato poi ci si è messo anche Lui, a confondere un po' le acque con il suo stile terra terra e la sua parlata non sempre cristallina; in molte occasioni, lo sanno tutti ormai, dopo una qualche sua frase interpretata in modi opposti, ci si è messo Lui a complicare le cose dandone una terza versione. Il pontificato di Francesco ci ha abituato a questo e finché si tratta di interviste date su un aereo ad alta quota... vabbè.... ma quando a lasciare tutti nell'incertezza di ciò che voleva dire e che non vuole chiarire... allora... dobbiamo ricordarci che...
Il papa è il Vicario di Cristo. Deve rappresentare Nostro Signore sulla terra e trasmettere integralmente il suo insegnamento  intervenendo in ultima istanza a far definitiva chiarezza e a dar risolutiva certezza circa certi dati della Rivelazione precedentemente interpretati dai teologi e circa i quali restano controversie, dubbi o discussioni o a volte si danno anche negazioni o false interpretazioni, deve inoltre vegliare alla trasmissione dei mezzi di santificazione che Gesù ci ha lasciato cioè i sacramenti, egli è custode e portatore della Verità a lui consegnata e portatore della vera carità nella verità, neppure il Papa o un Concilio può cambiare l’insegnamento di Nostro Signore. “Se anche noi stessi o un Angelo dal cielo vi annunciasse un Vangelo diverso da quello che riceveste, sia anatema”, diceva S. Paolo. C'è un certo allarme tra i cattolici per come il Papa parla, per come agisce e in definitiva quali fini abbia in mente; il Papa ama porsi come umile e misericordioso con tutto il creato ma un giorno sì e l'altro pure usa toni "poco" misericordiosi con chi nella Chiesa non si allinea al suo pensare. Da qui nasce una domanda un po' angosciata in molti: come restare "cattolici" se la "prassi" stravolge tutto? e fino a che punto seguire il Papa nel suo "rinnovamento" della Chiesa? certo il Papa ha una potestà di giurisdizione suprema, ordinaria ed immediata, sia su tutte e singole le Chiese, sia su tutti e singoli i pastori e fedeli, ma “La potestà del papa non è illimitata: è circoscritta entro determinati limiti. I limiti possono riguardare la validità o la liceità dell’esercizio della potestà. Se il Papa varca questi limiti si allontana dalla fede cattolica. E’ dottrina comune che il Papa, come dottore privato, può deviare dalla fede cattolica, cadendo in eresia e se così fosse? l'obbedienza al Papa sarebbe comunque incondizionata? Non è vincolante o obbligatoria solo quando un Pontefice ci obbligasse a rinnegare il Cristo, la Santissima Trinità, i Sacramenti, in una parola i dogmi, le dottrine. Sì invece quando non vi è questo pericolo. Un conto poi sono la critica moderata alle scelte che un Pontefice ritiene giuste e magari sono dottrinalmente ambigue o persino sbagliate, altra cosa è l'odio che con certe critiche viene disseminato contro un Pontefice, ma ricordiamoci che al di sopra di tutto, viene l’autorità di Colui del quale il Papa è il semplice vicario sulla terra: Gesù Cristo.





L'articolo che segue è di Cristiana de Magistris  -  cooperatores-veritatis.org

Il Papa è solo il vicario

Quando, negli anni del Concilio Vaticano II e dell’immediato post-Concilio, venti rivoluzionari soffiavano sulla Chiesa di Cristo, un teologo domenicano, padre Roger-Thomas Calmel, levò il suo vessillo contro-rivoluzionario e, con la sua penna e con la sua parola, fece sentire la sua voce che invitava i fedeli alla resistenza nella fedeltà inflessibile alla Tradizione di sempre con un atteggiamento spirituale di pace e finanche di gioia nella prova. Il messaggio di padre Calmel non ha mai cessato di essere attuale. Ma torna di particolare interesse quando – ed è il nostro caso – su verità “sempre, ovunque e da tutti” affermate inizia ad aleggiare il soffio funesto del dubbio, a partire dai vertici della gerarchia cattolica. Padre Calmel, spirito profetico come pochi negli ultimi 50 anni, aveva previsto questa tragica possibilità ed aveva messo in guardia i fedeli fornendo loro le armi per rimanere fedeli alla Chiesa di sempre ed evitare in tal modo la tentazione del sedevacantismo o quella ancor più funesta della disperazione. Poiché si tratta di una crisi dell’autorità, dal momento che gli errori vengono propugnati da chi avrebbe il compito di condannarli, il punto di partenza, fondamentale ed imprescindibile, è comprendere a fondo fin dove arrivi il potere dell’Autorità, a partire dal suo vertice, il Papa. Padre Calmel precisa anzitutto che il Capo della Chiesa è uno solo, Nostro Signore Gesù Cristo, che “è sempre infallibile, sempre senza peccato, sempre santo […]. È lui il solo Capo, perché tutti gli altri, compreso il più alto, non hanno autorità se non da Lui e per Lui”. Salendo al cielo, questo Capo invisibile ha lasciato alla sua Chiesa un Capo visibile come suo Vicario, il Papa, “che solo gode della giurisdizione suprema”. “Se però il Papa è il Vicario di Gesù, […], egli è soltanto il Vicario: vicens regens, tiene il posto di Gesù Cristo, ma resta altro da Lui”. Evidentemente il Papa ha prerogative del tutto eccezionali, custodendo i mezzi della grazia, i sacramenti, e la Verità rivelata. Gode, in certi casi ben circoscritti e determinati, dell’infallibilità. Per il resto, “può mancare in molti casi”. La storia della Chiesa – a parte un manipolo di Papi santi e un numero ridotto di papi indegni – è piena di Papi mediocri e manchevoli. Ciò non deve né spaventare né sorprendere. Al contrario, è proprio nella debolezza, e talvolta anche nell’indegnità, dei papi che risalta la signoria del nostro Salvatore, il Quale rimane il solo Capo della Chiesa, sulla quale esercita il suo governo “tenendo in mano anche i Papi insufficienti e contenendo la loro insufficienza in limiti invalicabili”. Ora, avverte padre Calmel, perché questa fiducia nel Capo invisibile della Chiesa sia così profonda da superare tutte le possibili deficienze del suo Vicario in terra, occorre che la nostra vita spirituale “sia riferita a Gesù Cristo e non al Papa; che la nostra vita interiore, la quale abbraccia – non serve dirlo – anche il Papa e la gerarchia, sia fondata non sulla gerarchia e sul Papa, ma sul divino Pontefice […] dal Quale il Vicario visibile supremo dipende ancor più degli altri sacerdoti”. E ciò per una ragione a tutti evidente e quanto mai elementare: “La Chiesa – scrive quest’illustre figlio di san Domenico – non è il corpo mistico del Papa. La Chiesa, col Papa, è il corpo mistico di Cristo. Quando la vita interiore dei cristiani è sempre più orientata a Gesù Cristo, essi non cadono nella disperazione, anche quando soffrono fino all’agonia delle manchevolezze d’un papa, sia egli un Onorio I o i papi antagonisti della fine del Medio Evo; sia egli, nel caso limite, un papa che manca secondo le nuove possibilità offerte dal modernismo”. Quand’anche un papa giungesse al limite estremo di cambiare la Fede “o per accecamento o per spirito di chimera o per un’illusione mortale” (tra le tante offerte dal modernismo), ebbene “il papa che arrivasse a questo punto non toglierebbe al Signore Gesù il suo governo infallibile, che tiene in mano anche lui, papa sviato, e gli impedisce di impegnare fino alla perversione della fede l’autorità ricevuta dall’alto”. Ma anche in questi sventurati casi, la vita interiore dei cristiani non può escludere il Papa, senza con ciò cessare di essere cristiana. Un’autentica vita interiore, centrata necessariamente su Gesù Cristo, include sempre il suo Vicario e l’obbedienza a lui dovuta, ma “questa obbedienza, lungi dall’essere incondizionata, è sempre praticata alla luce della fede teologale e della legge naturale”. E qui entra in gioco lo spinoso problema dell’obbedienza al Vicario di Cristo. Spinoso, nota ancora una volta padre Calmel, solo per chi ignori o voglia ignorare gli articoli della Fede cattolica riguardanti il Sommo Pontefice. Occorre anzitutto ricordare che ogni cristiano vive “per mezzo di Gesù Cristo e per Gesù Cristo, grazie alla sua Chiesa, che è governata dal Papa, al quale obbediamo in tutto ciò che è di sua competenza. Non viviamo affatto per mezzo e per il Papa, quasi ci avesse lui acquistato la redenzione eterna; ecco perché l’obbedienza cristiana non può né sempre né in tutto identificare il papa con Gesù Cristo”. Un cristiano che voglia incondizionatamente esser gradito al Papa, in tutto e sempre “è necessariamente abbandonato al rispetto umano” e si “espone a molte superficialità e complicità”. È pur vero, riconosce il teologo domenicano, che si è spesso predicato un’obbedienza al Vicario di Cristo che ha più il lezzo del servilismo che il profumo della virtù, talvolta per far carriera, o per preparare la propria testa al cappello cardinalizio, o per dare lustro al proprio Ordine o alla propria Congregazione. Ma, notiamo bene, “né Dio né il servizio del Papa hanno bisogno della nostra menzogna: Deus non eget nostro mendacio”. Occorre sempre ricordare la subordinazione dell’obbedienza alla Verità e dell’autorità alla Tradizione. Il Papa, come tutti gli uomini di Chiesa, non può usare legittimamente della sua autorità se non per definire o chiarire verità che sono sempre state insegnate. Se si allontanasse da questo sentiero, cesserebbe il dovere della nostra obbedienza e varrebbe il monito di san Pietro: “Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini” (At 5,29) [1]. Il Papa – in quanto papa – non è sempre infallibile e – come uomo – non è mai impeccabile. “Non bisogna scandalizzarsi se prove, talvolta molto crudeli, sopraggiungono alla Chiesa proprio da parte del suo capo visibile. Non bisogna scandalizzarsi se, benché soggetti al Papa, non possiamo tuttavia seguirlo ciecamente, incondizionatamente, in tutto e sempre”. Ma che fare allora se una situazione di tal genere divenisse la triste e sventurata realtà? In tal caso bisogna ancor più fortemente orientare la propria vita interiore all’unico Redentore e Signore del mondo, nutrendosi della Tradizione apostolica, con i suoi dogmi, del suo immortale Messale e del Catechismo, oltre che della preghiera e della penitenza. D’altro canto, la Rivelazione non ha mai insegnato che il Vicario di Cristo è immune dall’infliggere alla Chiesa prove di tal genere. Ed il modernismo, imperante da cinquant’anni, certamente è un terreno fertile per farle germogliare. Ma, se ciò avvenisse – come pare stia avvenendo –, benché una sorta di smarrimento e di vertigine assalga l’anima dei fedeli, bisogna ricordare che la Chiesa è la Sposa di Cristo ed è Lui che – nonostante gli umani cedimenti – la guida nella sua ineffabile e spesso a noi incomprensibile provvidenza. Padre Calmel paragona lo stato della nostra vita interiore sopraffatta da una simile prova alla preghiera del Signore Gesù nel Getsemani, quando disse agli apostoli mentre avanzava la soldataglia: Sinite usque huc (Lc 22,51). “È come se il Signore dicesse: Lo scandalo può arrivare fino a questo punto; ma lasciate e, secondo la mia raccomandazione, vegliate e pregate… Col mio consenso a bere il calice, vi ho meritato ogni grazia, mentre eravate addormentati e mi avete lasciato solo; vi ho ottenuto in particolare una grazia di forza soprannaturale, che sia a misura di tutte le prove, anche della prova che può venire alla Santa Chiesa da parte del Papa. Io vi ho reso capaci di sfuggire a questa vertigine”. L’anima cristiana che fondi la propria vita interiore sulla Tradizione perenne non ha da temere, anche in quella che padre Calmel ritiene la peggiore delle prove per la Chiesa: il tradimento del suo Vicario. Con l’ottimismo proprio delle anime sante, pur riconoscendo l’immane tragedia che attanaglia la Sposa di Cristo, egli ritiene tuttavia una grazia vivere in questi tempi di prova, nei quali la sofferenza più grande dei figli della Chiesa è esattamente quella di non poter seguire il Papa come desidererebbero. “Noi siamo figli docili del Papa, ma ci rifiutiamo di entrare in complicità con le direttive papali che inducono al peccato”. Il cardinal Caietano non esita ad affermare che “Bisogna resistere al Papa che pubblicamente distrugge la Chiesa”. Si tratta, in questi casi, di una sorta di “eclissi del Papato”. Questa prova però, nota padre Calmel, non potrà essere “né totale né troppo lunga” e – soprattutto – “noi abbiamo la grazia di santificarci” in questa eclissi nella quale la Chiesa resta la Sposa di Cristo, nonostante tutto. Com’era sua abitudine, elevava lo sguardo verso il Cielo e diceva: “Abbiamo la grazia di soffrire e di resistere senza farne una tragedia. La Vergine Santa ci difende”. Dunque, che cosa fare? I veri figli della Chiesa, quanto più desiderano rivedere la loro Madre rivestita del suo glorioso splendore, a partire dal suo Capo visibile, tanto più devono mettere la loro vita, con la grazia di Dio e conservando la Tradizione, sul solco dei Santi. “Allora il Signore Gesù finirà con l’accordare al gregge il pastore di cui esso si sarà sforzato di rendersi degno. All’insufficienza o alla defezione del Capo non aggiungiamo la nostra negligenza personale. Che la Tradizione apostolica viva almeno nel cuore dei fedeli anche se, sul momento, languisce nel cuore e nelle decisioni di chi ne è il responsabile a livello di Chiesa. Allora certamente il Signore ci userà misericordia”. Quella vera.
[1] Il 15 aprile 2010, Benedetto XVI, commentando questo passo degli Atti, nell’omelia ha detto: “San Pietro sta davanti alla suprema istituzione religiosa, alla quale normalmente si dovrebbe obbedire, ma Dio sta al di sopra di questa istituzione e Dio gli ha dato un altro “ordinamento”: deve obbedire a Dio.  L’obbedienza a Dio è la libertà, l’obbedienza a Dio gli dà la libertà di opporsi all’istituzione”.



domenica 1 gennaio 2017

Qualche domanda sul Papa e sulla Chiesa


Generalmente apro un nuovo Post inserendo una immagine che a mio insindacabile giudizio è in relazione a quanto andrò a scrivere; nel Post odierno eccezionalmente,  inserisco una fotografia; non credo di ledere la riservatezza della Persona ritratta, e tantomeno di intaccare il Suo diritto alla Privacy ( se dovessi sbagliarmi, farò uso della "dichiarazione" scritta a fondo pagina), in quanto il Signore ritratto è molto noto (almeno sul WEB) e risponde al nome di Ariel S. Levi di Gualdo, chi volesse avere sue notizie le troverà su http://isoladipatmos.com dove anch'io l'ho conosciuto. L'articolo che di seguito riporterò è una sua proprietà letteraria e lo riporto in questo Post attenendomi scrupolosamente alle sue indicazioni:

© L’Isola di Patmos – Rivista telematica di teologia ecclesiale e di aggiornamento pastorale
Articolo del 13 dicembre 2016. Autore: Ariel S. Levi di Gualdo
Si autorizza per lettura e uso privato la stampa cartacea di questo articolo che se totalmente o parzialmente riportato deve però recare indicata la data di pubblicazione, il nome della rivista telematica L’Isola di Patmos e il nome dell’Autore.


Proponiamo quindi la lettura di questo articolo, è un articolo complesso e... articolato, abbastanza lungo  e come è nello stile di scrittura di don Ariel anche con toni che vanno da una bonaria ironia a tratti di duro sarcasmo, articolo che don Ariel ha intitolato:

Questo pontificato rischia di finire a fischi in piazza e fratture drammatiche. 
Il Sommo Pontefice si trova in serie difficoltà nel governo della Chiesa.


Fin dai primi giorni del suo pontificato il Sommo Pontefice Francesco I ha prodotto una gran quantità di interventi, di incontri e di esternazioni estemporanee, seguiti da discorsi e dichiarazioni. Ha compiuto una serie di atti, gesti e decisioni pastorali; ha pubblicato diversi documenti, alcuni anche importanti, tra cui due encicliche1. Ha mostrato grandi capacità di contatto umano realizzando un’intensa attività pastorale con immediata eco a livelli mondiali, apparentemente positiva, acquistando credito e successo soprattutto presso tutti i tradizionali nemici storici della Chiesa. Abbiamo assistito a un grande slancio missionario ed evangelizzatore del papato, teso a raggiungere le periferie dell’umanità, credente e non credente, salvo curarsi sempre meno dei cattolici. Per la prima volta, sacerdoti e religiose sono stati redarguiti pubblicamente quando l’audience tendeva a calare, risollevando subito l’applausometro, dando pane e circo al popolo non cristiano e sommo gaudio alla stampa ultra laicista e anticlericale. Sia chiaro, i richiami al clero sono dovuti e pastoralmente sacrosanti, quando a darli è un Romano Pontefice che li rivolge con la severità e la carità, con la sapienza e la durezza con la quale il Sommo Pontefice Pio XI indirizzò al clero una memorabile Enciclica sul sacerdozio cattolico2. Mancando però certi presupposti è difficile accogliere richiami rasenti l’irriverenza e lo sberleffo, come quelli rivolti più volte dal Sommo Pontefice Francesco I ai suoi Sacerdoti. E ciò non tanto per lo spirito severo, ma perché questi richiami sono giunti da un Pontefice che da una parte, critica e addita alla pubblica gogna i difetti del clero cattolico ― difetti che esistono, sono molti e molto gravi ―, lucrando per tutta risposta il plauso immediato della stampa ultra laicista e anticlericale; ma, fatto questo, ecco dall’altra parte palesarsi tutta quanta la sua incoerenza e il suo umorale spirito di squilibrio psicologico nel recarsi poi a Caserta per abbracciare gli eretici pentecostali, dei quali non vede invece i gravi difetti. Il tutto, merita ricordarlo, è avvenuto in una festosa assemblea composta per la quasi totalità da nostri ex Christi fideles che hanno apostatato la fede cattolica per seguire la perniciosa eresia pentecostale, una corrente del protestantesimo considerata eretica persino dai luterani ortodossi. Ciò equivale a dire che nei fatti concreti, i pentecostali, non sono neppure un’eresia, ma un’eresia di seconda generazione, o per meglio intendersi l’eresia di un’eresia. È credibile un Sommo Pontefice che agisce in questo modo? Ma soprattutto: è da considerarsi uomo equilibrato e coerente, uno che oggi mette alla gogna il proprio clero sulla gaudente stampa ultra laicista e anticlericale, salvo poi recarsi il giorno dopo ad abbracciare unintera platea composta perlopiù da cattolici apostati divenuti eretici pentecostali al seguito di un imbonitore che mistifica, quindi bestemmia la Santissima Persona dello Spirito Santo di Dio? Sul Vangelo sta infatti scritto che Gesù Cristo si lasciava avvicinare all’occorrenza anche da persone cosiddette “poco raccomandabili”, che Egli stesso usa all’occorrenza come figure per lanciare precisi moniti a tutti noi, per esempio: «In verità vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio»3. In nessuno dei passi del Santo Vangelo sta scritto però che Gesù Cristo frequentasse mistificatori della Verità e pubblici bestemmiatori dello Spirito Santo di Dio. Da questo dobbiamo forse dedurre ― come di seguito dettaglierò ulteriormente ― che il Regnante Pontefice è forse più aperto e più misericordioso dello stesso Verbo di Dio Incarnato ?Sul Santo Vangelo sta scritto che il buon pastore è capace all’occorrenza a lasciare anche novantanove pecore nel deserto, per andare a recuperarne una smarrita4. Non risulta però che il buon pastore, rimasto con una pecora fedele dentro l’ovile, dopo averla irrisa e presa a bastonate, corra poi a far visita alle pecore fuggitive, per confermarle con la sua presenza e col suo rassicurante sorriso che hanno fatto davvero la scelta giusta, a lasciare l’ovile ed a rinnegare il pastore, andando infine a convivere col lupo impostore. E dato che questo lupo impostore, il nostro buon pastore è corso persino ad abbracciarlo, la domanda sorge del tutto spontanea: lo ha fatto forse per ringraziarlo di avergli svuotato gli ovili in giro per mezzo mondo?5. Dinanzi a questo e molti altri fatti, mi domando seriamente se il Regnante Pontefice ed io leggiamo due Vangeli diversi, premesso che in ogni caso, il Vangelo giusto, è il suo, ed in errore sono sicuramente io, che pur di recuperare una sola pecora portata via dal lupo sarei pronto a farmi sbranare dal branco di lupi al gran completo, sempre ammesso che non riesca io a impallinarli a schioppi di fucile uno appresso all’altro. E in tal caso, questo fucile, non sarebbe per niente l’arma dell’aggressore e del violento sanguinario, ma solo la legittima arma del defensor fidei e del defensor populiMentre quanto testé narrato accade sotto questo Augusto Pontificato, svariati miei coetanei in età, noti per le loro pessime condotte morali sin dai tempi del seminario, nonché per le loro palesi eterodossie e le loro imbarazzanti carenze dottrinarie, uno appresso all’altro stanno diventando vescovi, dopo essersi scoperti d’improvviso amanti dei poveri, della povertà e dei profughi; qualcuno è giunto persino a scrivere sul suo curriculum di provenire da una famiglia contadina, mentre chiunque lo conosca sa bene che i suoi familiari sono in verità degli imprenditori agricoli che in un giorno soltanto di lavoro guadagnano quello che il direttore di una banca guadagna in un mese di stipendio. In tempi recenti è divenuto vescovo persino “Lucilla”, così era soprannominato a suo tempo questo seminarista, anche indicato dai suoi compagni come “la fidanzata del seminario. Ma “Lucillaaveva avuto però la scaltrezza, appena divenuto prete, di mettersi alle costole di un vecchio cardinale come un’ape operaia che ronza attorno all’ape regina vanitosa. Detto questo dobbiamo però essere tranquilli, perché di recente qualcuno ha fatto dire al Venerabile Sommo Pontefice Benedetto XVI, che pure nè rimasto vittima sino allo spargimento del proprio sangue ― da intendersi in senso figurato, come martirio bianco ―, che la potentissima lobby gay all’interno della Chiesa in pratica non esiste, perché se proprio esisteva, «era composta» soltanto «da quattro o cinque persone» ...6  ... beh, in tal caso, se la lobby gay di potere era costituita all’interno della Chiesa solo da quattro o cinque persone, bisogna ammettere che queste quattro o cinque persone sono riuscite, in così poche, a produrre danni ed a seminare scorie radioattive per i successivi decenni, prima inquinando il Collegio Sacerdotale a partire da fine anni Sessanta del Novecento; poi a infettare il Collegio Episcopale dagli inizi degli anni Ottanta. C’è forse qualcuno disposto a credere che quattro o cinque persone soltanto, da sole, abbiano potuto produrre danni immani e seminare scorie radioattive più di quanto avrebbero potuto produrne quattro o cinque bombe atomiche lanciate nella verdeggiante quiete spirituale dei giardini vaticani, esplodendo all’ombra dei banani, delle piante di noci di cocco e delle canne da zucchero? Unitamente a questo slancio indefesso e generoso che ha assunto, prendendo come base e linea guida il dovere evangelico della misericordia e la fiducia in Dio misericordioso, il Sommo Pontefice Francesco I ha tuttavia compiuto molti gesti e interventi che si prestano a fraintendimenti, o che appaiono imprudenti, tanto da turbare e scontentare i cattolici, fatta eccezione per i modernisti, mentre ha incontrato successo presso i nemici della Chiesa: protestanti, ortodossi, massoni, islamici e comunisti, uomini di mondo e persone che hanno trascorso le proprie esistenze a denigrare la dottrina e la morale cattolica. Tutti questi soggetti, che costituiscono la claque 7 di questo pontificato, lungi dall’avvicinarsi alle verità evangeliche, seguitano a gloriarsi più che mai dei propri errori e del loro vivere non cristiano, cercando al tempo stesso di tirare in ogni modo dalla propria parte il Sommo Pontefice, sicuri di avere finalmente conquistato il vertice massimo da poter usare per la distruzione di colei che rimane sempre la loro antica nemica: la Chiesa Cattolica. Non dimentichiamo che nella più antica e consolidata “arte della guerra”, per distruggere le grandi aggregazioni, o le società storiche, è necessario colpirle corrodendole dall’interno; perché fatto questo, a quel punto si sgretoleranno. Questo è ciò che da quattro decenni sta accadendo all’interno della Chiesa infiltrata di eresie moderniste e di relativismo teologico, sino a giungere ai giorni nostri, nei quali abbiamo ormai perduto ogni meccanismo difensivo e ogni difesa immunitaria di quell’organismo ecclesiale che è il Corpo Mistico di Cristo, sino ad invertire la realtà ed a mutare il bene in male ed il male in bene. Ormai, dopo appena quattro anni di pontificato, non si contano più gli interventi o gli atti del Sommo Pontefice che hanno generato e che generano equivoci, fraintendimenti, confusione, proteste, lamentele, scandali, litigi, rimostranze, interrogativi, polemiche, opposizioni, strumentalizzazioni ...   ... a parte i lefebvriani, molte sono le reazioni irriverenti e sconvenienti da parte dei critici più disparati. Alcuni si spingono a sospettare o accusare il Sommo Pontefice di eresia. Né manca d’altra parte, in ambienti modernisti, il fenomeno dell’adulazione smaccata e della papolatria, portata avanti da coloro che, sino a pochi anni fa, contestavano pubblicamente e firmavano cartelli contro il magistero di San Giovanni Paolo II, come nel caso dei teologi tedeschi, poi imitati a ruota da quelli italiani. Se infatti andiamo a leggere le firme di quei cartelli8, scopriamo i nomi di alcuni di coloro che oggi si professano sostenitori di ogni sospiro che esce dalla bocca del Regnante Pontefice, pronti persino a invocare per lui quella infallibilità pontificia sulla quale, assieme al loro sodale Hans Küng, hanno riso pubblicamente e lanciato per anni irrisioni dalle più blasonate cattedre delle università pontificie, a partire naturalmente da quello spaccio autorizzato di eterodossie al quale è ridotta ormai da quattro decenni la Pontificia Università Gregoriana. E come ben capite, dinanzi a questo, non siamo più di fronte a semplice incoerenza, ma siamo dinanzi a delle vere e proprie patologie bipolari e dissociative da analizzare tutte quante in ambito strettamente psichiatrico. Altri dubitano che il Sommo Pontefice Francesco I sia vero Romano Pontefice, come il caro Antonio Socci, che ha scritto un pamphlet per metterne in discussione la validità canonica dell’elezione al sacro soglio. A quest’ultimo riguardo, a  doverosa difesa della figura del Regnante Pontefice, pubblicai un saggio breve al quale rimando9, redatto al teologico, canonico e pastorale scopo di confutare le tesi sostenute da questo celebre giornalista italiano, verso il quale mai ho cessato di nutrire affetto e amicizia, ma nutrendo al tempo stesso pastorale istinto di tutela verso le membra del Popolo di Dio, che non possono né devono mai essere indotte ad assumere certe tesi errate e fuorvianti come verità. Il Sommo Pontefice non può naturalmente rispondere a tutti, correggere tutti e chiarire con tutti. E questo è un enorme problema, perché le questioni irrisolte e non chiarite restano, si aggravano, fermentano e rischiano di portare a rotture davvero insanabili. È cosa sempre più evidente che il Sommo Pontefice Francesco I sia stato scelto dall’ala modernista del collegio cardinalizio, quello perlopiù costituito dai martiniani e dai rahneriani, tra i quali possiamo annoverare i Cardinali Gianfranco Ravasi, Oscar Maradiaga, Reinhard Marx, Karl Lehmann, Robert Zollitsch ...  ... è ormai palese che molte istanze del Cardinale Carlo Maria Martini, per quanto peregrine ed a volte persino non cattoliche, stiano avendo credito e legittimazione sotto questo pontificato, basti soli pensare all’ipotesi con la quale il defunto porporato invocò a suo tempo il «ripristino» del mai esistito diaconato femminile. Anche in questo caso pubblicai un breve saggio per spiegare che l’improvvido Cardinale chiedeva il «ripristino» di ciò che nella Chiesa non è mai esistito10 ...  ... come non detto: oggi è stata istituita una inutile commissione di studio per vagliare la eventuale possibilità del diaconato alle donne11, capitanata dal Segretario della Congregazione per la dottrina della fede, S.E. Mons. Luis Francisco Ladaria Ferrer S.J, che presso quel dicastero aveva come proprio pupillo il giovane Monsignor Krzysztof Olaf Charamsa, oggi felicemente convivente col suo fidanzato nei Paesi Baschi dopo un clamoroso coming-out 12. Per caso, il giovane prelato, faceva parte anch’esso di quelle sole quattro o cinque persone cui allude in una sua  risposta il Venerabile Sommo Pontefice Benedetto XVI ? Insomma: prendiamo atto, come già ho scritto in passato, che per la prima volta nella storia della Chiesa un Cardinale è stato eletto al sacro soglio dopo morto: Carlo Maria Martini. Questa cosiddetta “cordata” è subito partita sul piede di guerra poiché parecchio allarmata per la via purificatrice che aveva imboccato coraggiosamente il Sommo Pontefice Benedetto XVI, eletto appena otto anni prima dall’ala ortodossa del collegio cardinalizio, desiderosa di togliere quella «sporcizia», alla quale alluse il Cardinale Joseph Ratzinger nella famosa meditazione tenuta durante il Venerdì Santo del 200513.

L’opera di Benedetto XVI

Benedetto XVI, erede dell’esperienza alla Congregazione per la dottrina della fede, aveva proposto alla Chiesa alcuni orientamenti o indirizzi opportuni e adatti all’attuale situazione ecclesiale. Aveva offerto alcune tracce, che sarebbe stato bene chiarire e sviluppare. Ma indichiamo e commentiamo punto per punto queste tracce:

1 - un chiarimento del dogma cristologico, con la sua trilogia su Gesù Cristo ;
2 - la cura della dottrina come fondamento e guida della pastorale ;
3 - la cura per l’unità e la santità della Chiesa sotto la guida della liturgia ;
4 - la lotta sia al modernismo rahneriano che al lefebvrismo, ma nel contempo l’intento di far incontrare questi due avversari ;
5 - la promozione della vera interpretazione ed attuazione del Concilio Vaticano II da intendersi come progresso nella continuità, contro la falsa interpretazione fatta dai modernisti e contro la falsa accusa di modernismo fatta al Concilio da parte dei lefebvriani ;
6 - un ecumenismo e un dialogo critici e intelligenti col mondo moderno e con le altre religioni, che fosse attento ai valori ma anche ai pericoli, come per esempio il relativismo, lo storicismo, lo scientismo, il soggettivismo e la crisi della ragione; 
7 - nella liturgia il recupero del senso del sacro e dell’aspetto cultuale - sacrificale, che la riforma attuata dal Concilio Vaticano II, troppo preoccupata dell’ecumenismo, aveva abbandonato, ossia la cosiddetta riforma della riforma;
8 - l’invenzione della via giusta nelle trattative con i lefebvriani: riconoscimento della loro liturgia, ma richiesta ad essi fatta di «accettare le dottrine del Concilio, se vogliono essere in piena comunione con la Chiesa»14 ;
9 - distinzione tra un tradizionalismo legittimo e fedele al Concilio e un tradizionalismo scismatico e ribelle al Concilio, affinché fosse superato il vecchio schema dei “tradizionalisti” intesi come elementi contro il Concilio, ed i “progressisti” come elementi per il Concilio ;
10 - Riconoscimento della legittimità sia del progressismo che del tradizionalismo, purché entrambi non fuoriescano dall’alveo del Concilio e della Chiesa.

Benedetto XVI ha smascherato l’impostura dei modernisti, soprattutto dei rahneriani. Egli, al Concilio, collaborò con Rahner, è cosa nota e risaputa, oltre al fatto che con lo stesso pubblicò in gioventù anche un libro15. Concluso però il Concilio, si accorse che Rahner era un pericoloso cripto modernista che falsificava l’interpretazione del Concilio; e da lui prese le distanze cominciando a confutarlo, attenendosi all’interpretazione del Concilio data dal papato. E di questo “tradimento” o cosiddetto “voltafaccia”, di cui è sempre stato accusato nei potenti circoli rahneriani, il teologo Joseph Ratzinger pagherà il prezzo più elevato e terribile proprio durante il suo pontificato. E qual è l’inganno del modernismo? L’inganno velenoso non sta nella volontà di ammodernare la Chiesa. Ammodernare, nel suo giusto senso, vuol dire infatti rinnovare, migliorare, far progredire, far crescere, lasciare ciò che non va più bene. Renovabis faciem terrae. Questo ha fatto il Concilio. L’inganno del modernismo sta invece nel rinnovare nel senso sbagliato. Il modernismo potrebbe esser rappresentato con una semplice espressione: l’idolatria del moderno; perché questo di fatto sono gli eretici modernisti, degli idolatri acristici. I modernisti hanno capovolto il giusto rapporto del Vangelo col mondo moderno. Invece di considerare come valore assoluto il Vangelo, hanno considerato come valore assoluto la modernità. Ora, il relativo si giudica e si misura nel confronto con l’assoluto e in relazione e in base all’assoluto. In modo del tutto opposto, rispetto a Benedetto XVI, il Regnante Pontefice mostra grande indulgenza verso i modernisti, mentre ostenta durezza verso i conservatori, apostrofandoli a volte addirittura in termini offensivi. Non è questo il modo per favorire l’incontro e la pace fra le due parti, compito che spetta sommamente al Romano Pontefice, principio e fautore dell’unità nella Chiesa. Per fare questo occorrono però prudenza e sapienza, oltre a collaboratori fedeli e affidabili, non certo personaggi come Antonio Spadaro S.J, che lanciano tweetts con lo stile delle comari che cinguettano al lavatoio, né possono essere impiegati nella Segreteria di Stato soggetti come S.E. Mons. Angelo Becciu, che nella totale indifferenza dell’intera Santa Sede, in particolare della Congregazione per la dottrina della fede, ha rispolverato e fatto pubblico uso dell’eresia marcionista per attaccare un teologo ortodosso e un fedele servitore della Chiesa come Giovanni Cavalcoli16, che proprio in quella Segreteria fu zelante officiale nella sua qualità di accademico pontificio, prima che grazie agli amici degli amici vi giungessero personaggi come questo delizioso pigmeo teologico che ha mostrato pubblicamente di non conoscere il Catechismo della Chiesa Cattolica, ed uscendo infine illeso dal fattaccio, ma soprattutto rimanendo al suo posto per seguitare a far danni maggiori, persino dopo avere usato una eresia per confutare in modo spocchioso la corretta ortodossia cattolica altrui. Se infatti così non fosse stato e se i meriti oggettivi di S.E. Mons. Angelo Becciu non fossero proprio quelli mirati al pubblico scempio della dottrina e della inversione del bene col male e del male col bene, gli sarebbe forse stata mai concessa la Legion d’Onore di Francia17, ammesso e non concesso che da sempre, questo premio, è stato conferito perlopiù nel corso del tempo a illustri appartenenti alle Logge Massoniche ed a figure di illustri intellettuali anticattolici? Durante il conferimento di questo premio mancava all’appello solo il Cardinale Gianfranco Ravasi, per fare una lectio magistralis sui grandi valori culturali della Massoneria18.

Cambiamento di rotta: il concetto di “papa rivoluzionario” e di “rivoluzione” è incompatibile col mistero del Verbo di Dio e col papato.

Nel pontificato attuale non sembra esser rimasto nulla di tutte le illuminanti chiarificazioni, nonché sagge e utili linee pastorali del Sommo Pontefice Benedetto XVI. Il Pontefice Regnante ha voluto prendere una linea tutta sua, di orientamento fortemente sociale-ecologico, gradita ai laicisti e ai nemici stessi della Chiesa, nella convinzione di dare impulso all’opera del Concilio, ma in realtà, con la sua evidente imprudenza manifesta, si è messo in difficoltà tali che al momento non riesce a venirne fuori. E da questo dramma non ne verrà fuori neppure con la grazia dello Spirito Santo, dato che le azioni di grazia vanno accolte, perché, come spesso ho scritto e spiegato, senza stancarmi mai di ripeterlo: lo Spirito Santo bussa alle nostre porte, ma non le sfonda, perché siamo noi, che attraverso la nostra libertà dobbiamo aprirgli l’ingresso. E dinanzi al Sommo Pontefice Francesco I, risuonano più che mai le parole dell’Aquinate: « gratia non tollit naturam, sed perficit »19Il Sommo Pontefice Francesco I, nonostante tutte le lodi da egli stesso rese a parole nei riguardi del suo Predecessore, pare proprio non avere raccolto nulla della sua preziosa eredità, ma ha lasciato intendere di essere ― ed ha lasciato che Eugenio Scalfari lo dicesse di lui ― un Papa «rivoluzionario», con accenti vicini al rahnerismo, al teilhardismo e alla teologia della liberazione. E la parola “rivoluzione” ― con buona pace della giornalista argentina Elisabetta Piqué20 è incompatibile col papato, perché incompatibile col Verbo di Dio fatto uomo. Checché se ne dica infatti a sproposito nel linguaggio comune, o come si soleva fare negli anni Settanta del Novecento per cercare di attirare i giovani, confondendo pericolosamente la figura di Gesù Cristo con quella del sanguinario terrorista argentino Ernesto Guevara, naturalizzato a Cuba e detto poi El Che : Gesù Cristo non è stato affatto un rivoluzionario, perché il Verbo si è fatto carne, non si è fatto “rivoluzione”. E applicare a Dio incarnato dei termini quali “rivoluzione” e “rivoluzionario”, equivale ad una capitis deminutio maxima della divinità. Inutile dire ― giacché questo il Successore di Pietro ce lo dovrebbe insegnare a tutti ― che non si può diminuire Dio per andare incontro ai piaceri ed ai capricci mondani dell’uomo. I modernisti hanno sùbito visto nel Sommo Pontefice Francesco I la figura che faceva al caso loro. Pertanto non è da escludere che siano stati loro, con le loro arti astute, a convincere il sempre più debole Benedetto XVI ad abdicare liberamente il sacro soglio, irritati per la sua impostazione progressista, ma non modernista. E appena conseguita la vittoria, questi prodi si sono fatti attorno al nuovo Successore di Pietro, o per usare una allegoria fine: come le api attorno al miele. E queste api sono tutti i capi clan della contestazione sessantottina: Leonard Boff, Hans Küng, Frei Betto, Gustavo Gutierrez ...  ... attorno al Sommo Pontefice si è raccolta una zelante e intransigente corte di potenti adulatori ed interpreti, che hanno colto la palla al balzo, come l’ateo anticlericale Eugenio Scalfari, esultante per aver trovato finalmente il Papa che gli piace, per seguire con Alberto Melloni, che lo celebra come il Papa che ha riformato «mille anni di storia della Chiesa»21; il Cardinale Walter Kasper, che loda il Pontefice della conciliazione e della pace che ha cancellato cinquecento anni di conflitti con i luterani; i rahneriani, che in combutta coi massoni, tramano nell’ombra; per seguire con la “grande italiana” Emma Bonino, che ringrazia il Sommo Pontefice per la sua azione a favore di quella donna a suo dire emancipata dalla «grande conquista sociale» dell’aborto legalizzato; il falso profeta Enzo Bianchi, che vede nell’omosessualità un dono di Dio e un mistero di fede22. Poi c’è il povero cappuccino Raniero Cantalamessa ― povero nel senso di appartenente ad un ordine mendicante ― il quale ci comunica e ci assicura invece con aria commossa e con spirito recitativo da pessimo attore, che finalmente abbiamo il Papa della Misericordia, evangelizzatore del Dio che non castiga nessuno ...   ... a sostegno del Sommo Pontefice Francesco I, abbiamo dunque un bell’esercito “schierato all’altare”, come si cantava ai tempi di Pio XII. Il problema è che attorno a questo altare, purtroppo non cantano gli angeli. La facilità con la quale il Sommo Pontefice concede interviste e il modo approssimativo di esprimersi gli hanno suscitato attorno una pletora di giornalisti teologi improvvisati, nei quali la grossolanità, salvo rare eccezioni, è pari alla loro saccenteria, per cui pontificano, sentenziano, interpretano, assolvono e condannano come il vento tira e secondo le esigenze delle loro casse. Il Regnante Pontefice sembra aver consentita la nascita di una teologia dei giornalisti, che sostituisce quella nostra, che della teologia dovremmo essere i servitori competenti, il tutto come se in un ospedale ― visto che il Sommo Pontefice ama paragonare la Chiesa a un ospedale da campo ― gli inservienti addetti alle pulizie dei reparti avessero sostituito i medici. Tutto questo ha causato un ulteriore scadimento della già scaduta dignità della teologia, con grave danno per i fedeli e per la cultura cattolica. Mentre al Regnante Pontefice stesso non mancano purtroppo delle punte di ironia infelice e inopportuna nei confronti del lavoro dei teologi, che sarebbero poi i fedeli servitori preposti al suo servizio, per altri versi assieme ai canonisti, che per quanto tacciano molti per paura di perdere il loro posto al sole ―, si guardano bene dal fare serena, amara e veritiera ammissione che con certi suoi documenti o lettere il Sommo Pontefice ha creato il caos canonico, perché quanto da lui scritto è in palese contrasto con varie norme canoniche, che è sua somma e indubbia potestà cambiare come e quando vuole, purché prima di pubblicare certi testi si premuri di cambiare certe leggi, oppure chiarendo, nel documento stesso, che quella o quell’altra norma canonica deve ritenersi abrogata, oppure così modificata ... Quale differenza sostanziale e formale corre tra il Sommo Pontefice Francesco I e il Sommo Pontefice Benedetto XVI, che dinanzi alle polemiche nate in seguito alla sua remissione della scomunica ai vescovi validamente ma illecitamente consacrati con atto scismatico dal Vescovo Marcel Lefebvre, in un suo messaggio indirizzato ai Vescovi della Chiesa Cattolica, si rammarica per avere sbagliato nello  stile comunicativo, cosa che lo spinse a compilare una lettera nella quale offrì tutti i chiarimenti e le dovute spiegazioni, persino dinanzi a non pochi vescovi che reagirono in modo scomposto e taluni anche irrispettoso verso l’Augusta Persona del Romano Pontefice23. Una differenza davvero sostanziale e formale, rispetto al Sommo Pontefice Francesco I, il quale invece è così umile, ma così umile, che pur sbagliando a volte anche in modo grossolano e imbarazzante per tutti noi, mai e poi mai ammetterebbe di avere commesso un errore di comunicazione o di valutazione. Il Sommo Pontefice Francesco I ha voluto presentarsi come continuatore dell’opera riformatrice dei suoi Sommi Predecessori nella linea del Concilio Vaticano II. Solo che invece di continuare l’opera provvidenziale e illuminata di Benedetto XVI, per mancanza di comprensione dell’attuale situazione della Chiesa, è retrocesso alla problematica degli anni Settanta, quando si verificò lo scontro tra coloro ai quali il Concilio non andava bene e volevano tornare alla Chiesa di prima, ― i “conservatori” ― e coloro che, auto-proclamatisi interpreti e profeti dello “spirito del Concilio”, si dichiaravano entusiasticamente per il progresso della Chiesa e per il dialogo con la modernità ― ossia i sedicenti “progressisti” ―Ridurre la problematica attuale a questi termini, come invece sembra voler fare il Regnante Pontefice, vuol dire non accorgersi che la situazione è cambiata, a tratti in modo anche radicale. Cosa che invece ha fatto notare il suo Sommo Predecessore mettendo anzitutto in primo piano il problema della retta interpretazione del Concilio e segnalando quindi l’esistenza di un’interpretazione giusta, che è quella data dal Magistero, contro un’ interpretazione errata, di carattere prettamente modernista. In tal modo Benedetto XVI ha dato appoggio a un progressismo legittimo, fedele al Magistero, non però a un progressismo modernista e quindi di carattere prettamente ereticale. Il Sommo Pontefice Francesco I ha esagerato i difetti pastorali del Concilio, con un eccessivo buonismo ― la “misericordia” ―, difetti che lo stesso Sommo Pontefice Benedetto XVI riconosceva, mentre il Regnante Pontefice non chiarisce i punti dottrinali discussi. Egli ostenta sicurezza ed allegria; e forse fa anche bene a ostentarle, se animato dall’intenzione di non scoraggiare. Sono però certo che forse, dentro di sé, è preoccupato; e qualora lo fosse, farebbe proprio bene a esserlo.  Non è insolito nei Pontefici dare un orientamento di fondo al loro pontificato, quasi a farne la linea direttrice, una sorta di centro attorno al quale raccogliere i loro atti. Noi tutti, il giorno della elezione del Sommo Pontefice Francesco I, eravamo già pronti a urlare «sempre sia lodato!» al cristologico e paterno saluto: «Sia lodato Gesù Cristo», da lui rivolto dalla loggia centrale della papale arcibasilica di San Pietro. Invece ci siamo dovuti sorbire un «buonasera», seguito appresso da vari «buon pranzo» e «buona cena». Cosa questa che richiamò alla mia mente una diatriba avuta a suo tempo a Roma con un sacerdote argentino che soleva iniziare la Santa Messa dicendo: «Buon giorno a tutti!». Irritato da questo suo atteggiamento, seguito da numerosi altri personalismi liturgici, lo presi infine da parte in sacrestia e gli dissi: «Sicuramente, salutare il Popolo di Dio a questa tua maniera, è cosa più sociale e moderna di quel vecchio e forse troppo romano saluto trinitario col quale per secoli si sono aperte le nostre braccia di pastori sui fedeli dicendo loro: «La grazia del Signore nostro Gesù Cristo, l’amore di Dio Padre e la comunione dello Spirito Santo, sia con tutti voi». E aggiunsi: «Vuoi forse mettere l’impatto molto più bello che sicuramente fa un “buon giorno a tutti” o “buonasera a tutti”, rispetto a questo vecchio saluto trinitario col quale si invoca la grazia del Figlio, l’amore del Padre e la comunione dello Spirito Santo sui Christi fideles ?». Il programma di un pontificato, a volte si esprime attraverso piccoli gesti iniziali, da un «buona sera» espresso al posto del saluto «Sia lodato Gesù Cristo», allo stesso stemma pontificio. Nel motto instaurare omnia in Christo del Santo Pontefice Pio X, o nel motto oboedientia et pax del Santo Pontefice Giovanni XXIII, questi due Successori di Pietro sintetizzarono il loro programma pastorale. Il Sommo Pontefice Francesco I ha scelto il tema della misericordia, per caratterizzare la grande impresa del cristianesimo e l’opera divina della remissione dei nostri peccati. Il motto sul suo stemma è miserando atque eligendo, che pare vada inteso e tradotto come scegliendo con misericordia24Tuttavia, nel caso del Regnante Pontefice, il tema della misericordia sembra diventato di un’insistenza eccessiva, a tratti oserei dire ossessiva. È infatti tipico delle nevrosi ossessive, o delle persone affette da demenza senile, il fissarsi su uno o due punti e ripetere sempre quelli, oppure di portare sempre tutti gli argomenti variamente trattati a quell’uno o due punti. Inutile dire che i tre punti più battuti sono: “misericordia”, “profughi”, “poveri”. È notizia di oggi il fatto che il Sommo Pontefice, commentando l’imminente ricorrenza del Santo Natale, ha paragonato il Bambino Gesù a un profugo: «Anche Gesù fu un profugo»25. Non volendo e non potendo sviare dal discorso di per sé già molto complesso oggetto di questa mia trattazione, mi limito solo ad accennare al fatto che Cristo Dio non è nato affatto in una famiglia di morti di fame, che Giuseppe era un mastro artigiano benestante e che quella di Maria era una famiglia ancora più benestante di quella di Giuseppe, n’è prova il fatto che il marito di sua cugina Elisabetta, Zaccaria, non solo sapeva leggere, ma persino scrivere, anche perché apparteneva alla nobile casta sacerdotale26. E qui è necessario ricordare che all’epoca, le persone in grado di leggere e scrivere, erano poche ed appartenenti alle classi sociali più elevate e quindi economicamente abbienti. L’elemento di stampo ossessivo, finisce con l’essere aggravato da una idea di misericordia che appare isolata dal contesto delle altre virtù cristiane, particolarmente dalla virtù della giustizia, sia in Dio che nelle attività umane. Il lettore può trovare una sintesi della visione cristiana del rapporto tra queste due virtù in un articolo recentemente pubblicato dal teologo domenicano Giovanni Cavalcoli 27Una presentazione della misericordia senza il confronto con le altre virtù, finisce per falsare il concetto stesso della misericordia. Una concezione assolutizzata e unilaterale della misericordia finirebbe col compromettere la distinzione tra beatitudine eterna ed eterna dannazione. Non meravigliamoci, dunque, se il Regnante Pontefice rischia di perdere il controllo della situazione, anche se forse non ne rende conto; convinto com’era che per evitare i “filtridella “potente” Segreteria di Stato, bastasse solo alloggiare nell’albergo della Domus Sanctae Marthae, dove invece, senza filtro alcuno, entrano i peggiori maggiorenti del modernismo contemporaneo col nome di un presbitero idoneoper essere promosso alla dignità episcopale, previa garanzia data che è un prete periferico-esistenziale, che parla dei poveri e che avanti alla muffe della vecchia teologia metafisica ha messo la nuova teologia dei profughi. Sotto questo pontificato si stanno moltiplicando nelle diocesi nomine di vescovi palesemente modernisti, che selezioneranno come candidati al sacerdozio altrettanti modernisti, dopo avere messo nelle case di formazione e negli studi teologici dei formatori e degli insegnanti modernisti; e appena consultati dalla Santa Sede, proporranno come loro successori altrettanti modernisti. Questa tragedia in corso, pare però non togliere sonno al Regnante Pontefice, visto che in una recente intervista ha dichiarato di dormire tranquillo: «come un legno»28. Io invece non riuscirei affatto a dormire, dinanzi a questa caduta libera inarrestabile e purtroppo irreversibile, specie considerando che domani, i successori di questi vescovi modernisti, saranno direttamente i vescovi atei. E tutto questo danno ormai inevitabile, grazie a chi avverrà? A maggior ragione il Sommo Pontefice deve fare uno sforzo supremo, con fiducia in Dio, per attuare il suo ministero petrino e per salvare il salvabile; e per fare questo è bene rinunci alle interviste, rifuggendo dalla eccessiva loquacità, dalle frequenti battute, dalle esternazioni improvvisate, dai discorsi ambigui, dalle mezze verità, dalle frasi audaci, dalle scelte avventate ... perché tutte queste cose, sono come dei massi deposti sulla barca che sta affondando. Compia dunque seriamente il suo prezioso e insostituibile servizio al Popolo santo di Dio, il quale si attende dal Successore di Pietro una guida che unisce e non divide, un giudice o arbitro imparziale e non un uomo di parte, un maestro che illumina e non confonde, che dà certezze e non suscita dubbi, colui che eleva al cielo le aquile che lo meritano, non certo i polli che tentano di spiccare il volo raso terra nei cortili dietro le sacristieQuali sono, per esempio, gli effetti della conclamata “riforma della Curia Romanache per mesi ha mandato in solluchero la stampa ultra laicista? Forse l’espulsione dall’Istituto Opere di Religione di una degna persona come Ettore Gotti-Tedeschi? Forse, la paventata riforma della Curia Romana, è costituita dall’ assunzione di un notorio eretico come Enzo Bianchi a collaboratore della Santa Sede in sua veste di consultore del Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani? O quella di Alberto Melloni tra i consiglieri del Romano Pontefice, nonché come suggeritore diretto o indiretto dei vescovi da nominare, meritevoli di essere elevati alla dignità episcopale perché fedeli accoliti della Scuola di Bologna? La grande paventata “riforma della Curia Romana, è forse costituita dall’assunzione di un protestante nella redazione de L’Osservatore Romano e presso l’Accademia delle Scienze? Nessuno si è mai domandato quanti siano i cattolici assunti e impiegati presso i più alti vertici delle istituzioni protestanti? Se queste sono le riforme della Curia Romana, allora mi si consenta l’allegra battuta: evviva il Papa Re! Ma sia ben chiaro: il Papa Re Alessandro VI, che a prescindere dalla sua discutibile vita privata, era poi all’occorrenza un grande uomo di governo e un grande difensore della fede cattolica. Il vero contrasto intra-ecclesiale non è quello che da cinquant’anni vorrebbero far apparire i modernisti, ossia tra gli spregevoli, arretrati “conservatori” e gli ammirabili, avanzati “progressisti”, vale a dire: i primi, contro il Concilio, i secondi, per il Concilio. I primi, al dire dei modernisti, ammuffiti in un vecchiume farisaico; i secondi, aperti alla novità dello Spirito. I primi, fermi al Dio punitore dell’Antico Testamento, un Dio che manda all’inferno; i secondi, servi del Dio-Amore del Nuovo Testamento, che salva tutti. I primi, bloccati in una rigidità mortale, i secondi, immersi nel flusso della vita. I primi, vaganti tra astrazioni metafisiche, i secondi, attenti alle moderne, concrete esigenze della prassi e della storia. I primi, giudici implacabili, i secondi, accompagnatori accoglienti e misericordiosi. I primi, nell’ iperuranio di una immutabilità fuori della storia, i secondi, protagonisti dello Spirito che si è fatto carne e storia. I primi, privi di misericordia, i secondi, araldi della misericordia. I primi, schiavi della legge, i secondi, liberi sotto la grazia. I primi, giustizieri senza pietà, i secondi, giusti perché misericordiosi. I primi, chiusi in una Chiesa auto-referenziale, i secondi, lanciati in una Chiesa totalmente in uscita, o se meglio preferiamo ridotta ormai ai saldi di fine stagione. In realtà, il vero contrasto è tra coloro che interpretano il Concilio nel senso giusto e lo applicano ― e questi sono fedeli al magistero pontificio ―, e coloro che lo interpretano come favorevole al modernismo. Questa parte del mondo cattolico è divisa a sua volta in due fazioni, l’una opposta all’altra, l’una spregiatrice dell’ altra. La prima, in nome della “tradizione” ― e questi sono i lefebvriani ―, la seconda, nel nome della modernità e questi sono i modernisti . I lefebvriani respingono il Concilio perché lo ritengono infetto di modernismo; i modernisti fingono di accettarlo, ma in realtà lo interpretano in senso modernista e lo snaturano completamente, sino alla creazione di un loro vero e proprio concilio egomenico 29Gli uni e gli altri contrappongono continuità a progresso, Tradizione a Scrittura. Per i primi ci sono solo la continuità e la Tradizione, per i secondi ci sono solo il progresso e la Scrittura, sola Scriptura. In comune hanno il fatto che entrambi respingono il magistero pontificio. I lefebvriani, attaccando il Sommo Pontefice apertamente, sulla base di una falsa interpretazione della Tradizione, i modernisti, approfittando del progressismo del Regnante Pontefice, lo presentano ad usum delphini, ossia come modernista, sulla base di un’interpretazione protestante della Bibbia. La questione essenziale non è il contrasto tra conservatori e progressisti, ma quella tra veri e falsi cattolici, quella tra stolti e sapienti, tra giusti ed empi, ortodossi ed eretici, tra fedeli e scismatici. Perché l’antico non va confuso con l’ anticaglia e il moderno non va confuso col modernista. Entro lo spazio dell’ortodossia vi è ampia possibilità di scelta e di diversificazione, ampia dialettica di opinioni. Tradizionalismo e progressismo sono due leciti elementi preziosi: l’importante è non oltrepassare i limiti dell’ortodossia. Per questo dico che le diverse forze dovrebbero stimarsi, integrarsi e aiutarsi a vicenda, non trattarsi da nemici con aria di superiorità reciproca. Conservazione e progresso sono infatti normali fattori di consistenza e di sviluppo in qualunque società, Chiesa compresa. Perché ogni società ha due atti vitali fondamentali: conservare e difendere la propria identità funzione riservata alla tradizione , quindi svilupparsi, crescere e rinnovarsi nella continuità con se stessa ― funzione questa riservata da sempre al più sano e prezioso progressismo ―. Persino nei corpi fisici c’è una statica e una dinamica. Anche i corpi sociali non sfuggono a questa duplice legge della loro esistenza. I lefebvriani sono il partito degli “statici”, immobili come pietre. La loro casa è costruita sulla roccia30, ma le mura sono fatiscenti; confondono la stabilità con l’immobilismo. I modernisti sono i “dinamici”, in continua trasformazione, ma come nuvole senza pioggia portate via dai venti31. Essi hanno una casa modernissima, ma costruita sulla sabbia; confondono il progresso con l’evoluzionismo. Assumendo alcuni versetti dell’antico inno Veni Sancte Spiritus, bisogna chiedere allo Spirito per i lefebvriani flecte quod est rigidum 32, mentre occorre ricordare ai modernisti che lo Spirito Santo è in labore requies33La comunione affettiva tra i fedeli suppone la condivisione della medesima verità. Se il pastore non ha cura che la verità sia insegnata correttamente ed accettata da tutti, se non si cura della fermezza e chiarezza dei princìpi, se non vigila per impedire che l’errore si diffonda nel gregge, se non è zelante e coraggioso nel perseguire l’errore, anche se difeso dai potenti, se non è pronto ad appoggiare i fedeli e a difenderli quando sono calunniati dagli eretici, se tace su certe verità necessarie alla salvezza, se non è imparziale nel giudicare tra due contendenti in materia di fede, allora non si meravigli se vede sorgere e crescere attorno a sé da una parte adulatori e cortigiani, dall’altra feroci nemici e denigratori, mentre tra i fedeli polemiche e discordie a non finire. E se per tutta risposta egli minimizzasse questi conflitti come se si trattasse soltanto di normali discussioni, in tal caso, al danno, aggiungerebbe il disastro. Il vero progresso, se ci sono in gioco valori perenni, deve rispettare la loro continuità, senza rotture. Infatti, la rottura in tal caso non dà alcun progresso, ma semplicemente causa la distruzione o negazione di ciò che c’era prima e deve essere conservato. Invece, il vero progresso, comporta un soggetto che, restando identico a se stesso, passa dalla potenza all’atto. Si deve rompere con un passato di peccato. È cosa sacrilega rompere invece un sacro vincolo, col quale ci siamo legati a Dio per sempre. Essere aperti alla novità dello Spirito non può voler dire tradire gli impegni assunti o mancare alle promesse. Occorre restar fedeli a ciò che non passa e sapersi distaccare da ciò che è passato. 


Perplessità suscitate dalla predicazione del Sommo Pontefice Francesco I

Ovviamente nell’insegnamento del Sommo Pontefice Francesco I troviamo sempre il Maestro della fede, che ci indica la via di Cristo e della salvezza. Egli ha una grande capacità di esprimere in poche e incisive parole a modo di spot, si potrebbe dire ―, profonde verità della fede e della morale. Egli colpisce con efficacia e sicurezza vizi, deviazioni e pericoli; a volte a tutto tondo, altre volte a “senso unico”. Quello che tuttavia ― e ciò sia detto con modestia e sacro rispetto verso la sua Augusta Persona ― lascia perplessi, insoddisfatti o contrariati in certe sue frasi che sono poi esternazioni improvvisate, più che veri insegnamenti magisteriali, è l’impressione che a volte si ha di un parlare equivoco e sfuggente, che nasconde più che manifestare, confonde anziché distinguere, contrappone anziché unire, ma soprattutto si contraddice. E questo modo di parlare genera purtroppo il fraintendimento, oppure opposte interpretazioni, con tutto ciò che alla luce del sole ne consegue. Nel suo lodevole sforzo di contattare i non-cattolici con linguaggio moderno ed a loro comprensibile, il Sommo Pontefice assume di peso il loro linguaggio, che essendo però legato a errori ed eresie, andrebbe precisato, corretto e purificato. Invece egli non fa questa delicata e necessaria operazione, chiarendo il senso nel quale sta usando certe parole, che potrebbero prestarsi all’equivoco; e così, invece di favorire un dialogo onesto, limpido e leale, sembra intorbidare l’acqua, indulgendo o permettendo la diffusione dell’errore. E detto questo sia ben chiaro che non vogliamo pensare a volontà di inganno o ad una fuga dalle proprie responsabilità pensare questo sarebbe infatti molto grave né pensare a uno spirito insidioso o sofistico alla Guglielmo d’Ockham, tanto per intenderci. Verrebbe fatto piuttosto di pensare a una difficoltà di espressione, a una imperfetta concezione del pensiero aggravata da un difettoso uso del linguaggio. Forse a volte gioca anche una scarsa conoscenza dell’italiano stesso, oltre a una scarsa conoscenza in generale. Per questo mi viene da dire che qui non siamo tanto davanti a una colpa morale, quanto piuttosto agli effetti mentali o psicologici di una sistematica e metodologica formazione filosofica e teologica, di cui l’uomo Jorge Mario Bergoglio è chiaramente carente. Si nota infatti la totale mancanza di formazione tomista e l’influsso di una certa tendenza rahneriana. Si nota altresì l’influenza dello storicismo hegeliano, come avviene anche in un Kasper, in un Küng o in un Forte, eredi di un pensare non cattolico di impianto luterano risorto e trascinato dentro la Chiesa dal modernismo. Vi è poi una manifesta antipatia per l’astrazione teoretica, quindi per la metafisica, per la negazione dell’immutabilità divina, Dio che diviene nella storia, la storia come divenire di Dio. Di conseguenza, la sostituzione del concreto all’astratto, per cui l’azione singola e concreta non è applicazione della norma universale, nello spazio della norma, ma creazione soggettiva di una norma concreta al di là di quella universale ed astratta. Questo insistente modo di esprimersi del Sommo Pontefice ha finito per creare una vera e propria letteratura su cosa egli ha veramente detto, come va interpretato, se va o non va accettato e così via. Il problema ermeneutico di cosa ha detto il Sommo Pontefice ha assunto ormai proporzioni gigantesche, suscitando infinite discussioni e contrasti, con grave danno per il prestigio del magistero pontificio e per i fedeli, che chiedono luce e certezza soprattutto dal Vicario di Cristo. Ma sappiamo anche che seminare attriti e creare divisioni, è il sistema più antico per indebolire le strutture e per imporre in modo più agevole ciò che s’intende imporre, o che intendono imporre quanti si sono nascosti alle spalle di chi pensa di manovrare, senza rendersi affatto conto di essere invece manovrato. E la conseguenza del tutto è riassunta dalla saggezza popolare nel celebre detto dei pifferai di montagna, che scesero a valle per suonare e finirono invece suonati. Un caso del genere non ha precedenti nella storia del magistero pontificio. Ne godono solo i furbetti e coloro ai quali piace pescare nel torbido. Merita infatti ricordare e chiarire che se ci sono moltissime sfumature tra il bianco e il nero, queste sfumature non ci sono invece tra il sì e il no, a meno che non vogliamo cadere nella doppiezza e nell’ipocrisia, o in un modo di parlare che è contrario al monito evangelico: «Sia invece il vostro parlare sì, ; no, no; il di più viene dal maligno»34Il fatto è che adesso, il Regnante Pontefice, si trova assalito e sommerso da un caterva anzi peggio da una tempesta di istanze e interpellanze, rimostranze, richieste di chiarimenti e contestazioni, derivanti dalle sue idee sull’ecologia e sull’evangelizzazione, dal suo rapporto con gli immigrati a quello con i modernisti, a quello con i lefebvriani, a quello con l’Islam, a quello con la massoneria, a quello con i protestanti, a quello con gli ortodossi, a quello con i comunisti, a quello con gli omosessuali, a quello con i divorziati risposati ...  ... egli non è in grado di rispondere a tutte le obiezioni, di chiarire tutti gli equivoci, di evitare tutte le strumentalizzazioni, di dare la giusta interpretazione, di confutare tutti gli errori; e ciò per il semplice fatto che ha deciso di aprire il cosiddetto vaso di Pandora, al quale si ricollega però come conseguenza il detto poc’anzi enunciato degli improvvidi pifferai di montagna. Almeno si servisse di buoni collaboratori. Il guaio è che i modernisti che a lui stanno attorno gli fanno del danno ed aumentano la confusione, ma ciò che è peggio è che talvolta finiscono col fargli dire e decidere ciò che loro vogliono che sia detto e deciso. I buoni sono invece intimiditi dalla prepotenza modernista e tacciono per non avere guai, dopo avere appurato con quale “amabile misericordia” sono trattati coloro che sollevano pacate ed anche legittime obiezioni, da sempre consentite sia dal magistero35 sia dal diritto stesso della Chiesa, che da una parte sollecita i fedeli ad obbedire ai pastori36, dall’altra riconosce agli stessi il diritto di esprimere delle riserve su ciò che riguarda il bene della Chiesa37. E proprio riguardo il bene della Chiesa, molti sono oggi gli incerti e i dubbiosi, molti i vacillanti riguardo certe scelte pastorali del Sommo Pontefice. Bisogna che il Sommo Pontefice sia più prudente nel parlare, assumendo un linguaggio più chiaro. Sarebbe bene che tra tutti i temi che fanno problema dal punto di vista dell’interpretazione, affrontasse almeno gli argomenti principali con decisione e chiarezza. E a tal riguardo sarei tentato di suggerire al Sommo Pontefice la possibile spiegazione di un importante documento, oggi molto discusso, contestato, male interpretato o disatteso, la Amoris Laetitia, di cui però parlerò sul finire. Anche certi atteggiamenti pastorali del Sommo Pontefice sono molto discutibili, per non dire sbagliati, come per esempio la sua presa di posizione nella questione degli immigrati o il suo comportamento verso i luterani. Nel primo caso ― quello concernente gli islamici ―, non dovrebbe limitarsi a parlare in modo generico, unilaterale e indiscriminato di “accoglienza”, ma dovrebbe esortare a distinguere i profughi che hanno veramente bisogno, da coloro che, come i numerosi musulmani foraggiati dall’Arabia Saudita, dal Qatar e da altri ricchi Paesi arabi, attraverso un preciso progetto penetrano subdolamente in Europa con lo scopo di distruggere il cristianesimo e di sottomettere il nostro vecchio continente alla religione islamica. E tra la inarrestabile fiumana di questi falsi “profughi”, vi sono anche nascosti i fondamentalisti islamisti, come provano i ripetuti arresti ed espulsioni fatte dai dipartimenti per la sicurezza e l’antiterrorismo di numerosi Paesi europei. O forse per caso, il Regnante Pontefice, non si è ancora accorto di vivere in un minuscolo Stato che si trova al centro della Città di Roma, ormai da un paio d’anni interamente militarizzata e presidiata dall’esercito, a partire dagli obiettivi religiosi storici più sensibili ? E da chi ci difende e ci tutela l’Esercito Italiano assieme a tutte le altre Forze di polizia poste a presidio dell’antica Urbe Quirite, forse dai profughi che giungono a braccia aperte ringraziandoci per la nostra calorosa accoglienza ? Nel secondo caso ― quello concernente i luterani ― insieme al riconoscimento di ciò che ci unisce ad essi, il Sommo Pontefice dovrebbe ricordare con carità e prudenza, ma anche con santa parresia, da vero Padre di tutti cristiani, senza rispetti umani, gli errori di Lutero, affinché i cattolici non credano che la Chiesa non li riconosce più ed i luterani li correggano e si avvicinino a Roma. Non c’è dubbio che Lutero, nel periodo iniziale della sua vita religiosa, che trascorse da cattolico, avanzò delle riforme, alcune delle quali sono state successivamente accolte dalla Chiesa, fino ad arrivare al Concilio Vaticano II. Ma egli, una volta caduto nell’eresia, invece di riformare, ha deformato la Chiesa, per cui, come dice il Concilio, «comunità non piccole si sono staccate dalla piena comunione con la Chiesa cattolica»38Anche per quanto riguarda l’ecologia, il Sommo Pontefice fa nella sua enciclica Laudato si, un discorso incompleto. Il problema del rapporto dell’uomo con la natura non si esaurisce nel dovere di non distruggerla, di rispettarne le leggi e di utilizzarne le risorse a vantaggio di tutti. Ci sono ben altre gravi questioni, che toccano l’argomento, sulle quali purtroppo egli tace o sorvola, a partire da una adeguata e approfondita trattazione del mistero del peccato originale, grazie al quale l’equilibrio perfetto della natura creata da Dio è stato sovvertito e danneggiato molto di più di quanto lo sia dai condizionatori che inquinano l’ambiente con le loro emissioni di gas. Il suo discorso ecologico suona quindi semplicistico ed utopistico, simile a quello dei filosofi positivisti e scientisti, come se tutto il problema dei nostri rapporti con la natura si esaurisse nel metter ordine in una stanza disordinata o nel far rinverdire un giardino pestato dai ragazzini maleducati. Il nostro problema del rapporto con la natura è anche e soprattutto dato dal fatto che la natura ci è a volte così ostile, che non possiamo opporre alcun rimedio ai danni che ci procura. Ed è su questo punto che il cristiano ha una sua risposta risolutiva da dare; una risposta che però, purtroppo, il Regnante Pontefice non ci ricorda, perché questo comporterebbe richiamare l’umanità alla responsabilità generata dal peccato dell’uomo, a partire appunto dal peccato originale.



Un principio teoretico di fondo da recuperare: la conciliazione fra stabilità e progresso nel sapere.

Una perplessità che nasce dal seguire la predicazione del Sommo Pontefice è l’ impressione che egli parta da una gnoseologia storicista, come è evidente in Pierre Teilhard de Chardin, Karl Rahner, Edward Schillebeeckx, Walter Kasper, Bruno Forte e Vito Mancuso; una gnoseologia storicista non abbastanza attenta alle verità universali ed immutabili della ragione e della fede. Il Sommo Pontefice insiste eccessivamente, con impostazione tipicamente progressista, sull’apertura al nuovo, sulla mobilità della vita, sul saper cambiare e progredire, sulla elasticità del pensiero, sulla duttilità dell’azione, sulla necessità di non aggrapparsi a schemi vecchi e rigidi. Poco o nulla insiste invece su quell’altro aspetto fondamentale della vita, che è l’attenzione alla tradizione viva, la perseveranza nel bene, la fedeltà alle promesse fatte, la conservazione dei valori che non mutano o il recupero di verità perdute o dimenticate. Insomma, tutta la tematica dell’orientamento tradizionalista, che il Sommo Pontefice tratta invece con aperto disprezzo. Osserviamo allora che nel conoscere l’elemento della continuità dev’essere congiunto con quello dello svolgimento. La rottura si giustifica solo con l’ abbandono dell’errore o del vizio. Nella vita intellettuale c’è un elemento di certezza e un elemento di incertezza; un aspetto di stabilità e un aspetto di mutabilità; c’è la chiarezza e c’è l’oscurità; c’è il sicuro e c’è l’opinabile; ci sono cose che passano e cose che non passano; verità eterne e verità temporali; verità storiche e verità metafisiche; c’è il nuovo e c’è l’antico; c’è la sorpresa e c’è il risaputo; c’è il dato scontato e c’è quello problematico; c’è la legge naturale e c’è la legge positiva; c’è la norma e c’è l’eccezione; c’è il preciso e c’è l’impreciso; ci sono valori sui quali si può discutere, ma ci sono valori sui quali non si può in alcun modo negoziare, perché eretti non su leggi positive ma su leggi divine eterne e immutabili. Occorre quindi tener conto di entrambe queste serie di aspetti che sembrano a volte sfuggire allo spirito di “simpatia” e di “antipatia”, o del “mi piace” e “non mi piace” dell’uomo Jorge Mario Bergoglio, che durante i suoi anni di pontificato ha mostrato un certo spirito umorale. E, come sappiamo, l’umoralità dovrebbe essere la peggiore nemica di qualsiasi uomo di governo e di ogni buon pastore in cura d’animeL’uomo chiamato al governo pastorale ed il pastore in cura d’anime non può mai confondere la stabilità e la fedeltà con la rigidezza, col legalismo e con il conservatorismo. Non può confondere il progresso con lo storicismo, con l’ evoluzionismo e con il relativismo; perché il concetto di “immutabilità” non va preso come se fosse una parolaccia minacciosa, perché non è per niente sinonimo di astrattezza geometrica, tutt’altro: nella vita, immutabilità, vuol dire mantenimento o conservazione fedele della propria identità. Vuol dire incorruttibilità o immortalità.



La stabilità del sapere si fonda sulla stabilità dell’essere.

Bisognerebbe che il Sommo Pontefice, senza abbandonare la sua propensione per il progressismo del tutto legittima, finché non degenera nel modernismo tornasse a rivalutare, sull’esempio dei suoi Sommi Predecessori, in particolare di Benedetto XVI, il valore e la dignità della ragione come facoltà umana di cogliere il vero assoluto nei suoi fondamenti metafisici e teologici, alla scuola di San Tommaso d’Aquino, come prescrive proprio quel Concilio del quale egli vuol farsi tanto promotore. Come infatti fu spiegato magistralmente nell’esortazione Dominus Jesus dell’anno 2000:



Non rare volte si propone di evitare in teologia termini come «unicità», «universalità», «assolutezza», il cui uso darebbe l'impressione di enfasi eccessiva circa il significato e il valore dell'evento salvifico di Gesù Cristo nei confronti delle altre religioni. In realtà, questo linguaggio esprime semplicemente la fedeltà al dato rivelato, dal momento che costituisce uno sviluppo delle fonti stesse della fede. Fin dall'inizio, infatti, la comunità dei credenti ha riconosciuto a Gesù una valenza salvifica tale, che Lui solo, quale Figlio di Dio fatto uomo, crocifisso e risorto, per missione ricevuta dal Padre e nella potenza dello Spirito Santo, ha lo scopo di donare la rivelazione [cf. Mt 11,27] e la vita divina [cf. Gv 1,12; 5,25-26; 17,2] all'umanità intera e a ciascun uomo39.

Ebbene, dinanzi a certe espressioni del Regnante Pontefice, ma soprattutto dinanzi a certe sue forme di accondiscendente “prostrazione” dinanzi a tutto ciò che non è cattolico e neppure cristiano, dagli slanci imprudenti e inopportuni verso il complesso e pericoloso problema islamico, sino agli eretici pentecostali che stanno sempre più svuotando le Chiese cattoliche dell’America Latina ― in modo particolare quelle dell’Argentina e del Brasile ― credo sia a dir poco legittimo domandarsi: la profondità e la saggezza dottrinale e teologica delle parole impresse in questa Esortazione, che fine hanno fatto, a distanza di appena sedici anni dalla loro pubblicazione? Da cinquant’anni troppo si parla, spesso a sproposito e con affannata retorica, di rinnovamento, di divenire, di mutamento, di concretezza, di storicità e via dicendo. Ci si è dimenticati di quell’altra metà della vita dello spirito, che consiste nel culto del Sacro, dell’Eterno assoluto, del perenne, dell’inviolabile, dell’immutabile e dell’universale. Fermandoci al sapere morale, dobbiamo dire che questo sapere è giunto il momento di ricostruirlo sul suo saldo presupposto. Occorre riprendere gli insegnamenti biblici e la sana filosofia, fides et ratio. Diciamo dunque che Dio, in Se stesso immutabile, crea il diveniente, il tempo e la storia, perché è «l’amor che muove il sole e le altre stelle», come dice Dante nel XXXIII° Canto del Paradiso; muove l’agire di tutti gli agenti, compreso l’uomo, ma crea anche tutto ciò che nel creato è stabile e immutabile nell’essere e nell’agire. Dunque crea anche la legge morale nella sua immutabilitàIl Dio che «non muta», come dice Santa Teresa d’Avila, è il Dio fedele, che sta ai patti e mantiene le promesse. È il Dio del quale ci si può fidare e che non ci riserva cattive sorprese. È il Dio che dà fiducia e sicurezza. È chiaro che l’agire divino nella storia e nei singoli non può non essere rappresentato se non sul modello dell’agire umano, come cambiamento, mutamento, movimento e divenire, o come successione di atti e di interventi, i magnalia Dei. Ma tutto ciò non si riferisce all’essere divino come tale, ma bensì alla creatura, in quanto termine dell’agire divino. Dio, Atto puro di essere, non compie nessun passaggio dalla potenza all’atto. Essere semplicissimo, non è composto di parti, sì che possa perdere qualcosa. Quindi anche in questo senso non può mutare. Non può patire, non può soffrire; e chi oggi parla della «sofferenza di Dio», rischia di fare, nella migliore delle ipotesi, della inopportuna e improvvida “poesiaalla David Maria Turoldo, ma non certo teologia. Infatti, chi ha sofferto nella propria natura umana perfetta, è stato il Verbo Incarnato, il Divino Figlio, ma non certo il Padre «Creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili». Dio Padre, essere perfettissimo, non può ricevere, non può migliorare, non può progredire. Identità e unità assoluta, è coerente, non si contraddice, non oscilla, non si smentisce, non può mutare, non può divenire altro, non può soffrire, è sempre identico a se stesso. In Dio non c’è nessuna dialettica, nessun movimento. Però Dio non è monotono, Dio non è un déjà vu. Ma solo perché non ha bisogno di presentare aspetti nuovi, in quanto è infinito ed è Tutto 40. È «tutto in tutti»41 non in senso panteistico, ma in quanto la Causa divina è presente ed agisce in tutte le creature. Ricordiamo a tal proposito alcuni passi della Scrittura dove emergono soprattutto i valori della saldezza, della solidità, della stabilità, della robustezza, della resistenza, della permanenza e quindi, in campo morale, della fedeltà, della perseveranza, della costanza. «Il Signore è una roccia eterna»42. «Tu, o Dio, resti lo stesso»43; «Saldo è il tuo trono fin dal principio»44; «Hai fondato la terra ed essa è salda»45; «Secca l’erba, appassisce il fiore, ma la parola del nostro Dio dura per sempre»46. «Chi confida nel Signore è stabile per sempre»47. «I miei piedi ha stabilito sulla roccia»48. «Dio è mia roccia: non potrò vacillare»49. «Non siamo più sballottati dalle onde e portati qua e là da qualsiasi vento di dottrina, secondo l’inganno degli uomini, con quella loro astuzia che tende a trarre nell’errore»50. «Il giusto resterà saldo per sempre»51. «Siate saldi, perfetti e aderenti a tutti i voleri di Dio»52È vero che si deve progredire, che occorre essere aperti e disponibili al futuro, avere il senso del divenire storico, dell’incertezza, provvisorietà e precarietà delle decisioni umane, della labilità e della mutabilità di certi valori; è vero che non si deve far resistenza al nuovo e a ciò che è sanamente moderno, né si deve restare attaccati ad usi ed idee superati. Ma ciò non giustifica l’etica storicista e relativista di un Hegel o di un Kasper, la quale, col pretesto del concreto, del nuovo, della storia, della coscienza, del discernimento, della inculturazione, dell’aggiornamento e dell’adattamento, mena il cane per l’aia, costruisce la casa sulla sabbia, realizza l’apologia dell’infedeltà, crea dei pavidi, degli opportunisti, delle canne sbattute dal vento, lancia il modello dei perfetti voltagabbana o dei camaleonti, si inchina ai poteri di questo mondo, lecca i piedi dei potenti, mostrandosi di conseguenza servile con i potenti prepotenti e forte e feroce con i deboli e gli oppressi dall’ingiustizia.



L’errore dottrinale è causa della colpa morale: è dalla crisi del dogma che nasce la crisi dottrinale e quindi la crisi morale.

In un mio recente articolo teologico al quale rimando, ho spiegato che la crisi morale nasce dalla crisi del dogma che ha generato una crisi dottrinale, di cui la crisi morale è una triste e logica conseguenza53. Lungi da noi il sospetto che il Sommo Pontefice sia infetto dall’etica di Lutero o di Hegel ― sospetto che sarebbe gravemente calunnioso nei confronti del suo magistero morale di Successore di Pietro ― dobbiamo dire, tuttavia, con tutta franchezza e sommo rispetto per il Sommo Dottore della Fede, che certe sue espressioni infelici, certe affermazioni non precisate e certe mezze verità fanno pensare purtroppo proprio a questi autori. Per questo il Sommo Pontefice dovrebbe ascoltare con paterna benevolenza e dare adeguata risposta a coloro che, soprattutto se teologi, vescovi o Cardinali di Santa Romana Chiesa, gli indirizzano o rivolgono a lui suppliche collettive, domandando spiegazioni o chiarimenti, purché non gli si mostrino indocili, refrattari o irriverenti. Quello che però nella condotta del Sommo Pontefice aumenta le preoccupazioni nei cattolici fedeli al Magistero della Chiesa, è il fatto che egli sembra condividere o comunque tollerare gli errori rahneriani e modernisti di origine luterana ed hegeliana, presenti in certi suoi collaboratori, come per esempio il Cardinale Walter Kasper e l’Arcivescovo Bruno Forte54Queste preoccupazioni nascono in particolare dalla considerazione del modo col quale il Sommo Pontefice parla proprio del suo grande tema preferito, la misericordia. Da certe sue espressioni, infatti, egli sembrerebbe cedere all’etica della situazione, la quale, come ho detto, è di origine luterana mediata da Hegel. Infatti, come vedremo meglio più avanti, questa concezione esagera il ruolo della concretezza, del divenire e della soggettività nell’agire morale, perché non comprende il valore oggettivo, irrinunciabile, insopprimibile, “non negoziabile” ed assoluto della legge morale naturale, oggetto della ragion pratica, voluta da Dio, come regola uni- versale ed indispensabile dell’agire morale; quello che Kant chiamava, seppure in clima razionalistico, «imperativo categorico». La fedeltà a qualunque costo a questo obbligo sacro è il vanto della coscienza netta per dirla ancora una volta con Dante che non cede al male, e ciò che fa il massimo onore della dignità umana, fino a giungere al martirio, distinguendo gli abbietti dagli eroi e le persone spregevoli dai santi; distingue coloro che sono fossilizzati nell’immediato del tutto e subito da coloro che sono invece proiettati, al di là della storia, dall’essere storico presente contingente, caduco, diveniente e temporale all'Essere eterno, immortale ed immutabile.



L’etica luterana e le infelici espressioni del Sommo Pontefice su Lutero «riformatore animato da buone intenzioni» e sulla sua eresia indicata come «riforma».

Noi sappiamo come Lutero, col suo disprezzo per la ragione, non riuscì ad accettare una legge morale naturale. Da qui la sua relativizzazione degli stessi dieci comandamenti mosaici i quali ― come osserva San Tommaso d’Aquino55 non fanno che contenere i precetti della ragione naturale. Dunque, per fondare l’etica, a Lutero non restava che la “volontà” di un Dio dispotico, concepito alla maniera di Guglielmo da Ockham, che scandalizza la ragione, comandandole ciò che per lei è male e proibendole ciò che per lei è bene. Un Dio che nel suo giudizio impenetrabile, anzi scandaloso per l’umana ragione, assolve colpevoli e condanna gli innocenti. Non c’è allora da stupirsi che Lutero abbia scambiato i precetti morali e i Sacramenti della Sacra Tradizione per un coacervo farisaico, superstizioso e paganeggiante di usi e vanterie umani smentito dal Vangelo. Lutero non ha capito, per esempio, che il detto del Signore «Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato»56 si riferisce alla legge positiva, non alla legge naturale. Obbedendo alla legge, l’uomo rende un servizio a se stesso. Ma alla legge positiva si può soprassedere in nome della legge naturale o divina. Invece non si può mai disobbedire alla legge naturale, ossia ai divini comandamenti. Riguardo il rapporto legge-grazia, la concezione luterana della legge fraintende l’espressione del Beato Apostolo Paolo «non siete più sotto la legge, ma sotto la grazia»57, quindi fraintende quella di Sant’Agostino «liberi sotto la grazia», sino a relativizzare la legge in nome della grazia e della libertà. Non quindi obbedienza o sottomissione alla legge, ma libertà dalla legge. Ora, è da notare che il libero arbitrio suppone l’obbedienza o la disobbedienza alla legge, la scelta tra il bene e il male. Invece, per Lutero, l’arbitrio è «schiavo della legge». La libertà sotto la grazia sarebbe, secondo lui, libertà da questa alternativa. Ecco perché nella sua visione, il giusto, benché peccatore, compie sempre il bene. Il peccato è sempre perdonato perché la grazia non viene mai meno in chi ha «fede». E da tutto questo si capisce quale pessima formazione filosofica, dottrinale e teologica ebbe a suo tempo Lutero, più o meno la stessa di coloro che oggi cadono dall’albero come pere mature sopra la terra dei suoi stessi errori, sino al punto di magnificare questo venefico eresiarca come un «riformatore», le cui intenzioni «non erano sbagliate», sino a conferire al suo scisma rango di «riforma». Sia chiaro: il dottore privato Jorge Mario Bergoglio è libero di definire Lutero come «riformatore» animato da intenzioni che «non erano sbagliate», quindi di definire la sua corrente come «riforma»58, io però resto libero ― beneficiando di una libertà che come già detto pagine addietro mi è riconosciuta in tal senso dalla dottrina, dal magistero e dal diritto stesso della Chiesa59 ― di seguitare a considerare Lutero un eresiarca e la sua frattura uno scisma che ha straziato l’unità della Chiesa e diffuso l’errore in giro per tutto il mondo a partire dal Nord dell’Europa. Per quanto poi riguarda le intenzioni che «non erano sbagliate», il Regnante Pontefice e la corte dei miracoli che a lui s’é insediata attorno attraverso i vari Kasper, Forte, Spadaro, Melloni, Riccardi e via dicendo a seguire, dovrebbero tutti quanti sapere, in prudenza e sapienza, che di buone intenzioni sono da sempre lastricate tutte le principali vie che portano diritti verso l’Inferno. Non andrebbe infatti dimenticato che in questo nostro mondo si abortisce per buone intenzioni, si pratica l’eutanasia per buone intenzioni, si permette alle coppie omosessuali di acquistare bambini da uteri in affitto per buone intenzioni, si annacquano tutte le pagine del Santo Vangelo nel quale il Verbo di Dio stesso in sua Persona Umana parla senza mezzi termini di giudizio, condanna, castigo, inferno, dannazione eterna ... perché siamo arrivati al punto ― ovviamente sempre per buone intenzioni ―, di correggere persino Cristo Dio, perché oggi abbiamo sulla terra qualcuno che è più buono e soprattutto più misericordioso di Lui. Purtroppo, in nome delle «buone intenzioni», di recente ci siamo dovuti sorbire questa ennesima affermazione che ha creato molto imbarazzo e profondo dolore in numerosi teologi e storici della Chiesa:



Io credo che le intenzioni di Martin Lutero non fossero sbagliate: era un riformatore. Forse alcuni metodi non erano giusti, ma in quel tempo, se leggiamo la storia del Pastor, per esempio un tedesco luterano che poi si è convertito quando ha visto la realtà di quel tempo, e si è fatto cattolico vediamo che la Chiesa non era proprio un modello da imitare: c’era corruzione nella Chiesa, c’era mondanità, c’era attaccamento ai soldi e al potere. E per questo lui ha protestato. Poi era intelligente, e ha fatto un passo avanti giustificando il perché faceva questo [...]60


Premesso che il Regnante Pontefice, il meglio delle sue risposte, tende a darle in aereo ad alta quota, dove l’ossigeno al cervello abbonda o dove talvolta forse scarseggia, lungo sarebbe il discorso legato a Lutero, pertanto limitiamoci a dire in breve che un eresiarca che crea un insanabile scisma producendo con esso una drammatica rottura della comunione della Chiesa, non può essere chiamato «riformatore», né tale può essere definito neppure dopo avere assunta una massiccia dose di potenti sostanze psicotrope. Sappiamo infatti bene che Lutero non si è limitato a protestare contro la innegabile corruzione morale e politica che vigeva all’interno della struttura ecclesiastica, perché egli si è posto al di sopra dell’autorità della Chiesa, che per quanto composta da uomini peccatori, detiene una auctoritas ad essa conferita da Cristo Dio in Persona. In questa mia trattazione, per esempio, io ho più volte sollevato dubbi e perplessità sullo stile pastorale del Regnante Pontefice, sul suo modo di esprimersi inopportuno e soprattutto sulle sue ripetute manifestazioni improntate sulla mancanza di prudenza; mai però ho posto, né mai porrei in minima discussione la sua autorità e la sua figura apostolica, il suo essere legittimo Successore di Pietro e Vicario di Cristo in terra. Lutero, indicato dal Regnante Pontefice come «riformatore», ha posto invece in discussione proprio questo: l’autorità del Successore del Principe degli Apostoli e il suo ruolo di Vicario di Cristo, quindi la natura stessa della Chiesa edificata sulla roccia di Pietro che da Cristo Dio ha ricevuto una precisa funzione vicaria61. Per quanto poi riguarda l’ intelligenza di Lutero, uomo rozzo e gretto, privo di prudenza e di sapienza, irascibile e violento, basterebbe leggere certi suoi scritti, ma soprattutto visionare la grossolana traduzione da lui fatta della Sacra Bibbia; tradotta non dall’originale ebraico ma dal greco. In questa traduzione egli dimostra di conoscere così male quella lingua antica, a tal punto da prendere degli abbagli che in alcuni passi tradotti suonano davvero comici. Detto questo mi sento di affermare in fede cattolica, in scienza teologica e in coscienza storica, che l’affermazione fatta dal Sommo Pontefice Francesco I riguardo l’eresiarca Lutero, nasce dall’autentico concentrato di tutte le sue più preoccupanti carenze dottrinarie, oltre a manifestare tutte le sue inquietanti carenze di conoscenza storica. Ripeto: in discussione non è l’infallibilità del legittimo Successore di Pietro in materia di dottrina e di fede, legata a un dogma della Chiesa ulteriormente dettagliato anche dal recente magistero62; un dogma sul quale mai io discuterei, ed in specie nella mia veste di teologo dogmatico. In discussione è solo la desolante fallibilità dell’uomo Jorge Mario Bergoglio, che parlando a ruota libera ad alta quota, vuoi per eccesso vuoi per carenza di ossigeno, definisce Lutero come soggetto animato da «intenzioni non sbagliate», come un «riformatore», infine come persona «intelligente», manifestando come ho appena detto delle preoccupanti carenze teologiche, storiche e di cultura generale, perché alla rigorosa prova dei fatti, Lutero è stato in verità tutt’altra cosa: è stato uno dei peggiori eresiarchi dell’intera storia della Chiesa. A tal proposito rimando ad alcuni dei diversi articoli scritti per la nostra raccolta di Theologica da Giovanni Cavalcoli e da me63.


L’etica hegeliana.


A uno sguardo non attento o superficiale, l’etica hegeliana64 potrebbe apparire in radicale opposizione a quella di Lutero; mentre infatti Lutero disprezza la ragione umana, dal canto suo Hegel, accentuando il razionalismo kantiano, ne fa invece l’Assoluto. Ma, ad uno sguardo attento e profondo, ci accorgiamo però che non è così e che Hegel è effettivamente il continuatore di Lutero. Innanzitutto, bisogna tener presente che Hegel afferma esplicitamente il suo intento di dare alla sua opera un fondamento filosofico alla sua fede luterana. Come dunque Hegel è il continuatore di Lutero? Con un formidabile gioco dialettico, in fondo molto semplice, mediante delle acrobazie nelle quali Hegel è un maestro insuperabile. Del resto, la furbizia dialettica non c’è forse già in Lutero, quando dice che Dio appare nelle sembianze del diavolo? Oppure quando Lutero vanta la propria furbizia affermando che egli sa cavarsela in ogni situazione ecco l’etica della situazione , tanto che l’eresiarca amava affermare che nessuno era in grado di metterlo nel sacco ... ... ebbene, che cosa fa Hegel? Il trucco sta nel sostituire la “fede” luterana con la “ragione” hegeliana. La fede, per Lutero, non è forse la Parola di Dio? Non è forse rivelazione divina? Ora appunto per Hegel la ragione è di per sé divina, e lo è anche la ragione umana. Per Hegel la ragione è rivelazione divina. Ecco allora che egli, a questo punto, può chiamare “ragione” quello che Lutero chiama “fede”. E dunque il gioco è fatto. Bisogna peraltro notare che Hegel spinge fino in fondo, fino a giungere al panteismo, una tendenza immanentistica, che esiste già nella concezione luterana egocentrica della coscienza. Ma Lutero non può essere qualificato come panteista. La sua è un’ impostazione interiorista ed illuminista di tipo agostiniano, ma Lutero, fedele qui al realismo biblico, resta sostanzialmente realista.


L’etica della situazione e le sue insidie. Il disprezzo dei poveri è prodotto della “cultura” degli eredi dell’eresia di Lutero e Calvino.


In riferimento ad Hegel, non è cosa dissonante citare la cosiddetta “etica della situazione”, perché è possibile trovare in lui le radici di questa etica, una concezione morale in auge negli anni Cinquanta del Novecento, già condannata dal Sommo Pontefice Pio XII, le cui tracce alcuni analisti degli insegnamenti del Papa, hanno creduto di poter trovare soprattutto in certi passaggi paludati della Amoris Laetitia. In questa concezione, infatti, come nell’etica hegeliana e come dice la parola stessa, il soggetto agente ricava la linea di condotta da tenere, non da una legge morale universale, oggettiva e immutabile, ma alla luce del suo giudizio di coscienza, ricava il da farsi dalla stessa situazione concreta, nella quale egli si trova a dover agire. In poche parole: non si tratta di applicare una legge ad una data situazione, ma si tratta di ricavare la legge dalla situazione 65 che come possiamo ben capire, è cosa sostanzialmente diversa, sotto molti aspetti anche non poco pericolosa. In una giusta concezione etica, il riferimento assoluto e la regola dell’agire bonum honestum non è la situazione, ma la legge. Considerare la situazione è certo necessario, affinché l’azione sia adatta alla situazione; ma la sostanza dell’atto morale e per conseguenza la sua bontà morale, sta nell’osservanza della legge, sia pur sempre in una data situazione. Ma la situazione non detta, da sola o principalmente, ciò che si deve fare, è solo un accidente, sia pur necessario, dell’azione; è una circostanza, nella quale l’azione avviene. Indubbiamente, se l’agente non fa attenzione alla situazione, l’azione che ne consegue non è adatta, quindi è cattiva. Viceversa, una lettura attenta della situazione suggerisce l’azione da compiere. Ma questa deve sempre comunque essere l’applicazione della legge, cosa che poi alla fine non è altro che l’obbedienza alla volontà di Dio. Nell’etica della situazione, invece, la legge non è immutabile, perché nasce dalle situazioni, le quali cambiano. Pertanto, i comandamenti, non sono obbligatori, ma facoltativi, con la conseguenza che si decide di volta in volta, caso per caso, se applicarli o meno, a seconda delle situazioni. All’incirca come avviene in certe applicazioni del diritto anglosassone secondo il principio del case law66, il cui impianto socio-giuridico è notoriamente strutturato su criteri di matrice luterano-calvinista, come del resto lo è l’economia sviluppata in quei paesi, inclusi gli spietati meccanismi bancari e finanziari. Purtroppo però, anche in questo caso, l’iper dialogante e l’iper ecumenico Regnante Pontefice, mai ammetterebbe ma forse più semplicemente mai arriverebbe a capire per palese difetto di cultura generale che il liberalismo selvaggio, quello per intendersi che ha reso i ricchi sempre più ricchi ed i poveri sempre più poveri, oltre a rendere questi secondi persino colpevoli della loro stessa povertà, non nasce affatto dal mondo cattolico, dalla Roma imperiale, dalla curia, dalla gran corte pontificia, né in generale da quella romanità da lui tanto disprezzata, ma nasce invece dalle eresie di Lutero e di Calvino, i cui eredi egli è andato di recente ad abbracciare in occasione dei Cinquecento anni della pseudo riforma dell’eresiarca tedesco, dopo avere naturalmente bastonato a dovere i «cattolici tristi» ed i «preti rigidi», dandoci una ulteriore umiliazione facendosi fotografare accanto ad una Gentile Signora mascherata da arcivescova che in modo carnevalesco indossava le insegne sacerdotali accanto al Romano Pontefice67. Ma d’altronde, se gli storici che circolano attorno al Sommo Pontefice sono personaggi ideologici e di conseguenza intellettualmente disonesti come Alberto Melloni e Andrea Riccardi, difficilmente qualcuno riuscirà a spiegargli che mentre nei vecchi Stati italiani, i sovrani che fingevano di essere liberal-democratici, avevano ridotto alla fame intere popolazioni, nello Stato Pontificio esistevano già da secoli strutture assistenziali per anziani, bambini e ammalati; e a nessun abitante e a nessuna famiglia dello Stato Pontificio mancava ‘a pagnotta der Papa, perché i sudditi di Sua Santità non potevano morire di fame, come invece avveniva negli Stati dei sovrani illuminati e liberali, gli stessi che poi, attraverso la propaganda dei massoni, diffondevano le peggiori leggende nere sul papato...  ... pertanto, se la legge non risponde alla nuova situazione, dev’essere cambiata, o comunque adattata alle “esigenze” del “caso concreto”, il quale “caso concreto” finisce poi col divenire legge. Ecco allora che se la norma dell’indissolubilità del matrimonio non risponde più alla situazione della società o dei due coniugi, il matrimonio deve poter esser sciolto. Volendo far riferimento alla questione della misericordia, l’etica hegeliana può essere tranquillamente qualificata come misericordista; e ciò perché manca la vera misericordia. Infatti, l’etica hegeliana scusa, anzi approva tutte le azioni umane commesse nel corso della storia, per il semplice fatto di essersi realizzate e di aver vinto una forza contraria, anche quelle che all’occhio umano appaiono cattive. Il più forte, chi ha successo, od il vincitore ha sempre ragione, perché per Hegel la verità non dipende da una realtà in sé, indipendente dall’agente, ma è l’effetto della azione dell’agente, principio questo dell’idealismo etico, già presente in Fichte. L’uomo, agendo, determina la verità del proprio essere. E qui possiamo appurare in quale misura la misericordia non c’entri nulla con la elaborazione di questi pensieri. Semmai trionfa la prepotenza e la violenza, proprio come sta avvenendo di questi tempi nella Chiesa verso ogni voce contraria, anche pacata. Beninteso, il tutto in nome della misericordia! Una misericordia, quella esplosa e imposta oggi all’interno della Chiesa, che ricorda in tutto e per tutto quel confuso concetto di “libertà” che nel periodo del terrore fu riassunto sotto le scale della ghigliottina dalla viscontessa Marie-Jeanne Roland de la Platière, che prima di salire al patibolo affermò: «Libertà, quanti crimini, si commettono nel tuo nome!». Proprio come i crimini che oggi, nella Chiesa visibile, si commettono in nome di una non meglio precisata misericordia, poiché a flussi e riflussi storici ogni epoca pare avere sempre il proprio Robespierre ed i suoi fedeli accoliti; anche se mai, i vari Robespierre di turno, hanno fatta sapiente memoria del fatto che a portare infine lo stesso Robespierre sulla ghigliottina, furono proprio i suoi fedeli accoliti ...  ... e come certe forme di liberalismo sono di fatto la negazione della libertà, così il misericordismo che della misericordia è solo una parodia costituisce la più palese negazione della divina misericordia. Quel misericordismo che scusa senza ragione ogni peccato, per il fatto che sarebbe solamente apparente, ma in realtà sarebbe manifestazione divina, giustificata la cosiddetta “giustificazione” luterana e giudicata positivamente da Dio, essendo Egli un Dio che “diviene” nella storia. E poiché nella storia c’è il bene e il male, ecco che Dio, per Hegel, contiene nella sua stessa essenza l’opposizione tra il bene e il male. E anche in questo caso non abbiamo la vera misericordia, perché essa chiama il peccato col suo nome e non confonde un’opportuna indulgenza o tolleranza con un’ipocrita accondiscendenza, col cedimento e col dare al male una parvenza di onestà. Come Lutero, anche Hegel non ha la percezione dell’universalità della legge naturale. Pensa infatti il misericordista in cuor suo: “Io sono perdonato da Dio, ma tu sei un infame, se contraddici me, che invece ho Dio in me”. E questo, per inciso, è l’atteggiamento deleterio che caratterizza certi nostri cattolici appartenenti alle ali più fuori controllo dei movimenti carismatici e del Cammino Neocatecumenale, quelli che beneficiano dello Spirito Santo a loro personale servizio, che per loro parla e che in loro di rigore si manifesta. Un esempio classico: se a un carismatico del Rinnovamento nello Spirito Santo, dopo essere “svenuto” sotto il cosiddetto riposo dello Spirito, dopo essersi ripreso e rialzato per annunciare seduta stante un paio di eresie cristologiche, uno fa notare che la Terza Persona della Santissima Trinità non ispira né suggerisce cose contrarie alla dottrina della fede, ecco che per tutta risposta, il delegato personale dello Spirito Santo, prima ti darà dell’arrogante o del superbo, poi ti bollerà come persona «ostile e chiusa allo Spirito che parla in me». E detta proprio sinceramente: ... ma possibile, che da alcuni decenni a questa parte nessuna autorità ecclesiastica, a partire dalla Congregazione per la dottrina della fede, si sia resa conto di quanto all’interno di certi movimenti carismatici cattolici siano presenti alcune delle peggiori derive ereticali pentecostali, oltre ad un concetto tanto errato quanto inquietante di pneumologia ? Nell’etica hegeliana che oggi ricompare nel buonismo, non si scampa: o si è oppressi dal peccato ovvero “servi” , ma perdonati; oppure si è oppressori, farisei e maledetti ovvero “padroni” ; e detto questo capiamo anche come mai, Hegel, è precursore e ispiratore di Karl Marx. O per dirla ancora con Lutero: o si è “giustificati” o si è “giustizieri”. E lo sfondo teologico di questa etica è il Dio misericordioso luterano che mi perdona, ma che è contro i miei nemici, soprattutto i papisti. Il misericordismo, sotto una maschera di dolcezza e di benevolenza, nasconde la violenza e la crudeltà; è come la libertà e l’era dei lumi di Robespierre all’ombra della ghigliottina e dei giustiziati senza processo. Il misericordista fa comunella con chi accetta il misericordismo, ma aggredisce furiosamente chi in nome della vera misericordia e della giustizia rifiuta il misericordismo; e di questo, noi Padri dell’Isola di Patmos, ne abbiamo fatta spesa con la assurda polemica nella quale è stato coinvolto il teologo domenicano Giovanni Cavalcoli dopo un suo programma a Radio Maria68, per avere osato parlare del dottrinale e teologico ovvio: «Dio castiga e usa misericordia»69. Il misericordismo hegeliano, oggi di gran moda, è quindi l’apoteosi dell’ ipocrisia e della falsa misericordia di chi pretende misericordia per sé e la nega a tutti quanti gli altri, ma soprattutto a coloro che osano non pensare in modo “libero”, “collegiale” e “democratico” come lui. Inoltre, nell’etica della situazione, vi è antipatia per l’astratto, ed essa bada solo al concreto. Essa ha in parte ragione, perché effettivamente l’azione è nel concreto. Sennonché, dato però che l’agire umano è regolato dalla ragion pratica, che conosce come universale ed astrattamente quella legge naturale, che indirizza l’agire ai fini della natura umana creata da Dio, per questo motivo la legge morale, sia umana che divina, viene concepita dalla ragione e dalla fede in modo astratto ed universale. Da qui la necessità che mediante la virtù della prudenza e della carità, il soggetto agente sappia discernere nei singoli casi il come ed il modo in cui applicare quella data legge piuttosto che un’altra, magari superiore e più importante, il tutto sull’esempio di Cristo che in nome della misericordia, a volte soprassedeva alla legge del Shabbath, precisando all’occorrenza che «Il sabato è stato fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato»70. Il vizio “dell’etica della situazione” sta invece nel fatto che essa, partendo dalla considerazione che la legge è astratta, mentre invece l’azione è concreta, supponendo un falso concetto dell’astrazione come s’essa allontanasse dal reale, anziché contenerlo, finisce col credere che per agire bene e per non restare fuori della realtà, bisogna aggiungere all’astratto della legge il concreto dell’azione, o modificare l’astratto a seconda delle esigenze della situazione. Ma in realtà si finisce così per disprezzare la legge e coonestare la trasgressione delle legge, ossia il peccato.

Il Sommo Pontefice dovrebbe rispondere ai quattro Cardinali che attraverso i loro dubia hanno rivolto un quesito secondo la più antica tradizione apostolica.


Comprendo che il Romano Pontefice possa essere rimasto infastidito per l’indirizzo dei quattro Padri Cardinali che gli hanno rivolta supplica a voler rispondere con un “si” o con un “no” a delle precise domande riguardanti alcuni passi non chiari della esortazione apostolica post-sinodale Amoris Laetitia 71. Questi Padri Cardinali hanno forse dubitato laddove non avrebbero dovuto, ossia sulle convinzioni del Sommo Pontefice circa l’indissolubilità del matrimonio, il valore sacramentale dell’Eucaristia e della penitenza, l’oggettività, l’universalità e l’ immutabilità della legge morale naturale, l’esistenza dell’atto umano intrinsecamente cattivo, i limiti della coscienza morale soggettiva?72. Certo, la dichiarazione stile vergine vilipesa resa dal decano dei Tribunale della Rota Romana Pio Vito Pinto73, in tempi meno tragici dei nostri attuali, ma soprattutto trasposta in una operetta leggera stile La vedova allegra, avrebbe potuto far sorridere, specie dovegli invoca:

«Quale Chiesa difendono questi cardinali? Il Papa è fedele alla dottrina di Cristo. Quello che hanno fatto è uno scandalo molto grave che potrebbe addirittura portare il Santo Padre a ritirar loro il cappello cardinalizio come già è accaduto in qualche altro momento della Chiesa».

Peccato che questo illustre giurista, che accorre a lisciare il pelo all’asino laddove l’ha legato il padrone, non si chieda invece quale Chiesa difenda e promuova il Cardinale Gianfranco Ravasi che “allegorizza” la risurrezione di Cristo o che indirizza pubbliche lettere d’amore ai «Cari Fratelli Massoni» dalle colonne de Il Sole 24 Ore. Perché se Pio Vito Pinto voleva darci riprova dello squilibrio senza precedenti storici che stiamo vivendo, ma soprattutto del modo impudente nel quale oggi si invertono bene e male, in effetti c’è riuscito. Perché la sua logica giuridica a quanto pare è la seguente: per dei dubia sotto forma di quesiti espressi da dei Cardinali, la Chiesa corpo mistico di Cristo divenuta oggi più misericordiosa del suo stesso Capo che è Cristo ―, invoca il ritiro della dignità cardinalizia, ma del tutto incurante che in svariati membri del Collegio Cardinalizio sono presenti, a partire dal modernismo madre di ogni eresia, tutte quelle che oggi potremmo definire come “le vecchie eresie di ritorno”, che da sotto le ceneri sono saltate di nuovo fuori tutte quante. L’ultima in ordine di serie ― come dicevo all’inizio di questa trattazione ― è uscita proprio dalla Segreteria di Stato di Sua Santità ed è tornata ad avere gli onori delle cronache per bocca di S.E. Mons. Angelo Becciu, sostituto alla Segreteria di Stato, che per accusare e redarguire il teologo domenicano Giovanni Cavalcoli ha sciorinato in gloria l’eresia marcionistaDinanzi a questo e molto altro ancora, lo zelante Pio Vito Pinto, ha forse invocato il ritiro di cariche e dignità ecclesiastiche, qual giusta e prudenziale punizione verso Vescovi e Cardinali che enunciano vere e proprie eresie? Evidentemente, il Decano della Rota Romana, ha applicato all’interno della Chiesa il principio giuridico della carta costituzionale de La fattoria degli animali di George Orwell:

«Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri».



A questo, è stato oggi ridotto il Codice di Diritto Canonico, ad una Fattoria degli animali di George Orwell ? Ovviamente, il Decano della Rota Romana, potrebbe obiettare dicendo che lui solleva una questione puramente canonica sui Dubia espressi da quattro Cardinali, mentre io cito tra queste righe il Cardinale Gianfranco Ravasi ― uno tra i tanti e forse neppure tra i peggiori ―, che fanno solenni scivoloni in materia di dottrina e di fede, quindi l’elemento di paragone da me espresso non è pertinente perché materia teologica e non canonica, riguardante come tale la Congregazione per la dottrina della fede. Una potenziale questione alla quale però risponderei: primo, quale è la fonte del Diritto Canonico? È la Costituzione dell’assemblea rivoluzionaria di Francia, oppure è il Vangelo? Secondo, i dubbi sollevati dal Beato Apostolo Paolo ad Antiochia, come li avrebbe giudicati, canonicamente, l’insigne giurista, visto che l’ Apostolo stesso scrive: «mi opposi a lui [Pietro] a viso aperto»74? Perché la quaestio di fondo è che né il Beato Paolo né i quattro Cardinali pongono minimamente in alcuna discussione l’autorità di Pietro, sapendo da chi tale autorità gli perviene e quindi da chi gli è stata conferita. Pertanto, questa Lettera ai Galati, dovrebbe essere considerata una fonte a dir poco privilegiata del Diritto Canonico, sicuramente molto più della giurisprudenza giacobina oggi tanto in voga in nome della misericordia. Tuttavia, penso sarebbe bene che il Sommo Pontefice desse risposta a questi suoi quattro Cardinali, non certo per rassicurarli della sua fedeltà alla sana dottrina, della quale egli, per mandato e con l’assistenza dello Spirito Santo è supremo maestro, ma per offrire alcuni chiarimenti, che appaiono utili, se non necessari. In fondo, non si capisce come mai un Sommo Pontefice che viene celebrato come più buono e misericordioso di Gesù stesso e che è a tal punto umile da lavare e baciare i piedi alla Missa in Coena Domini a musulmani, a prostitute non propriamente pentite e transessuali fieri75, non sia così umile da rispondere a quattro suoi Cardinali. Ecco, per indurlo a rispondere, potremmo adottare la stessa tecnica che adottano i vari Alberto Melloni e Andrea Riccardi per far nominare Vescovi dei modernisti a tutto tondo ... «è un prete dei poveri per i poveri» ! In questo caso si potrebbe ricorrere a un altro stratagemma, diverso ma simile, ossia far presente al Sommo Pontefice che anche i cardinali, come alcune prostitute alle quali ha lavato e baciato i piedi alla Missa in Coena Domini ― dove si festeggia la istituzione dell’Eucaristia e del Sacerdozio e non la conversione di Maria Maddalena76 durante il servizio si vestono anch’esse di rosso sgargiante per essere più visibili e individuabili sotto i lampioni delle strade. Questo punto di comunanza tra prostitute e cardinali potrebbe risvegliare nel Sommo Pontefice tutta quella umiltà che lo porterebbe non solo a rispondere ai quattro Cardinali, ma persino a lavargli e baciargli i piedi alla prossima Missa in Coena Domini, per la quale volendo potrebbe racimolare più prostitute nell’attuale Collegio Cardinalizio, di quante invece non ne possa trovare nel carcere femminile romano di Rebibbia. Il problema è che a certe prostitute si può dire: «Le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato»77, mentre a certi cardinali-prostitute, questo passo del Santo Vangelo non può essere applicato, purtroppo! Perché non hanno amato e soprattutto non sono più consapevoli del peccato, per distruggere il senso del quale hanno usato una falsa misericordia. Ecco perché a certi soggetti il Verbo di Dio non potrebbe esprimere la frase finale di questo passo evangelico: «La tua fede ti ha salvata; va' in pace!»78, perché ciò che manca in certi soggetti, è proprio la fede, quella attraverso la quale si ottengono la grazia della misericordia e del perdono. Anzitutto, il Sommo Pontefice, potrebbe ricordare ai quattro Padri Cardinali che la norma dell’esclusione dei divorziati risposati dai Sacramenti, benché fondata sulla legge divina, è di per sé una norma canonica riguardante la disciplina dei Sacramenti dipendente dal potere giurisdizionale del Sommo Pontefice, il cosiddetto “potere delle chiavi”. Questo fa sì che mentre la legge divina è assolutamente immutabile, anche da parte del Successore di Pietro e qui vale la sacramentalità del matrimonio, dell’Eucaristia e della penitenza , la legge ecclesiastica può essere invece mutata o anche abrogata dal Sommo Pontefice a sua discrezione, ove lo giudicasse utile od opportuno per il bene della Chiesa e dei fedeli; sempre che sussista veramente il bene, sia per l’una sia per gli altriOccorre distinguere altresì lo stato irregolare dallo stato di peccato. Il primo è uno stato di vita cristiana, che è in contrasto con gravi doveri morali, come per esempio quello della fedeltà coniugale, con grave pericolo per la sua anima. Lo stato di peccato, invece, è una condotta stabile volontariamente peccaminosa, per la quale il soggetto si ostina, senza pentirsi, ad aderire alla colpa, che può essere anche mortale. Ora, mentre lo stato irregolare, non sempre, per motivi oggettivi e ragionevoli, indipendenti dalla volontà del soggetto, può essere interrotto dal soggetto stesso, lo stato di peccato, dipendendo dalla volontà, può essere interrotto in qualsiasi momento da un atto di pentimento e di richiesta di perdono a Dio, il Quale, nella sua misericordia, non manca di accordarlo. Questo vuol dire che, se il soggetto caduto nel peccato mortale è perdonato da Dio, Questi, cancellando la sua colpa, restituisce al soggetto lo stato di grazia. In questo senso la Amoris Laetitia afferma che i divorziati risposati possono essere in grazia, benché permangano giuridicamente in uno stato irregolare. E detto questo nessuno nega, né mai nessuno ha negato la estrema delicatezza del tema e della materia, come abbiamo ripetutamente espresso e spiegato Giovanni Cavalcoli ed io, a partire dal 2015, su diversi nostri articoli tutt’oggi reperibili nell’archivio dell’Isola di PatmosBisogna poi notare che la Amoris Laetitia non abroga, ma conferma le disposizioni date da San Giovanni Paolo II al n. 84 della Familiaris consortio, quelle dell’Esortazione apostolica post-sinodale Sacramentum caritatis di Benedetto XVI e dell’Istruzione della Congregazione per la dottrina della fede del 1994 sull’argomento. Nella sua «infelice lettera scritta a un gruppo di Vescovi argentini»79 il Sommo Pontefice, facendo riferimento alla nota 351 della Amoris Laetitia, non muta la norma, ma accenna alla sua facoltà di farlo in futuro, per «alcuni casi», se lo riterrà conveniente. Per questo sbagliano coloro che hanno interpretato la nota 351 come se fosse un mutamento di legge, ma il loro eventuale errore, nasce comunque da una espressione infelice e soprattutto ambigua del Sommo Pontefice, cosa questa che non dobbiamo dimenticare, non per gratuito spirito critico, ma per semplice ossequio alla verità dei fatti. In caso contrario, se il Sommo Pontefice stesso non avesse seminato questi dubbi con certe sue parole ambigue, nessuno avrebbe cominciato a temere che si stava tentando di mutare la norma attraverso la prassi pastorale, in una Chiesa nella quale, da mezzo secolo a questa parte, numerose norme mai mutate né tanto meno abrogate, sono bellamente disattese per “prassi pastorale”, o semplicemente per “nuovi costumi”. E da questo si giunge al vero e proprio paradosso: oggi, chi ricorda che la norma esiste sempre e che va’ applicata, rischia di sentirsi dare, dal Sommo Pontefice stesso, del rigido e dell’ottuso. In base a questi presupposti il Sommo Pontefice, un domani, potrebbe concedere la Comunione ai divorziati risposati in casi speciali, senza che ciò possa costituire un attentato o una offesa ai Sacramenti, ma sarebbe un modo diverso di amministrarli, più consono alla divina misericordia. Se egli avesse dette queste cose confermando al tempo stesso la dottrina della Chiesa in materia e quindi liberando il campo da ogni possibile ambiguità, avrebbe anzitutto apportato una chiarezza decisiva su di un punto legato alla disciplina dei Sacramenti, sul quale stanno regnando molta incertezza e confusione, sino al punto che quattro Vescovi, nella loro veste di Cardinali e di stretti collaboratori del Romano Pontefice, hanno a lui rivolto un quesito sotto forma di dubia80Come ricordavo avanti, a suo tempo il Beato Apostolo Paolo ebbe una discussione di non poco conto col Beato Apostolo Pietro ad Antiochia. La discussione era legata a questioni strettamente attinenti alla dottrina della fede. Ebbene, qualche modernista odierno scopertosi d’improvviso più papista del papa, ha affermato con spirito sfottente che costoro ― i quattro Cardinali ― non sono però Paolo. Ecco, io ritengo, in modo tanto sincero quanto addolorato, che proprio in questo spirito sfottente manifestato da coloro che gridano “libertà!” sotto il palco della ghigliottina, risiede il velenoso errore teologico, perché quei quattro Cardinali, sono invece Paolo, come per Sacramento di grazia lo è ogni Vescovo del mondo. Se invece noi applicassimo la stessa logica di questo irridente teologo modernista che urla “libertà!” sotto il palco della ghigliottina, si potrebbe replicare: Bene. Se loro non sono Paolo, altrettanto si potrebbe dire nella stessa misura e con identica logica che Francesco I non è Pietro. Mentre invece per tutti noi, Francesco I, per quanto gravato di difetti e limitatezze a volte persino imbarazzanti, rimane per mistero di fede e di grazia la attuale pietra sulla quale Cristo ha edificata la sua Chiesa visibile, il clavigero, colui ai quale è stato dato ― una volta ravveduto ― il mandato di confermare i fratelli nella fede81. E qui si noti che la frase del Signore Gesù, che è complessa e articolata, non si limita solo a enunciare «conferma i fratelli nella fede», perché c’è una prima frase, costituita dal monito «una volta ravveduto», ed un drammatico proseguimento: l’annuncio dello stesso tradimento di Pietro:


Simone, Simone, ecco Satana vi ha cercato per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede; e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli». E Pietro gli disse: «Signore, con te sono pronto ad andare in prigione e alla morte». Gli rispose: «Pietro, io ti dico: non canterà oggi il gallo prima che tu per tre volte avrai negato di conoscermi»82.

Confesso ai nostri Lettori che due anni fa, parlando in privato col mio direttore spirituale, espressi un timore che non si è attenuato, ma purtroppo è accresciuto; ed il timore è che questo pontificato corra il serio rischio di finire a fischi in piazza, perché il Popolo di Dio, che compone il corpo mistico di Cristo, non è dotato di quella intima e spesso radicale vigliaccheria di cui sono invece dotati cardinali, vescovi e preti, spesso camaleonti e leccapiedi, attaccati alle loro poltrone ed ai loro privilegi acquisiti più di quanto lo siano di per sé i peggiori elementi che hanno calcato le scene politiche della nostra Italia del dopoguerra. Questo mio timore nasce dalle chiese sempre più vuote, dai confessionali deserti, dalla confusione sempre più diffusa, dal numero sempre più crescente di fedeli che confessano di provare autentico disagio, dinanzi ai modi di agire del Sommo Pontefice, al suo modo di esprimersi, alle sue interviste inopportune, ma soprattutto al suo sorridere ed al suo aprirsi a tutto ciò che non è cattolico ... Il Sommo Pontefice, come nello stile dei caudillos latinoamericani, rischia di parlare di un Popolo che non esiste e di una teologia del popolo molto più onirica di quanto invece non lo sia mai stata la bistrattata e iperuranicateologica metafisica, con il suo linguaggio chiaro e preciso. O vogliamo forse negare ciò che è accaduto all’interno della Chiesa, quando alla precisione del linguaggio metafisico si è sostituito un linguaggio preso a prestito dal romanticismo tedesco decadente?83 Speriamo perciò che la grazia e la misericordia di Dio possa salvare il Romano Pontefice dal conoscere e dall’incontrare un giorno il popolo vero, il popolo reale, quello che fece fuggire per il “passetto84 diversi suoi predecessori a Castel Sant’Angelo, o che prima ancora ne gettò diversi già morti nelle acque del Tevere. Perché quando il Popolo si arrabbia, con la propria rabbia non sempre manifesta l’ira propria, sovente manifesta invece la santa ira di Dio. E dinanzi a un popolo la cui rabbia è accesa dalla santa ira di Dio, non sarà facile né possibile ammansirlo dicendogli, con suadente aria da telenovela zuccherosa: «Non abbiate paura della tenerezza», credete, ve lo dico io «che sono un po’ furbo»85Per esempio, qualcuno si è mai chiesto che cosa accadrà, quando il popolo dei popoli, tal è definito per antichità quello romano, comincerà a percepire che dietro certi gesti e parole del suo Romano Pontefice che per i romani rimane tutt’oggi il loro Re ― si nasconde in verità un profondo, gretto e provinciale disprezzo per Roma e per quella romanità che non vuol dire affatto opulenti sfarzi di corte, ma vuol dire invece universalità cattolica? Perché giungere al sacro soglio senza essersi prima liberati da tutte le peggiori prevenzioni anti-romane ereditate dal peggior pregiudizio latinoamericano degli anni Settanta del Novecento, gonfiato a suon di ideologia e di soldi profusi nella incubatrice dell’America Latina dai peggiori romanofobi tedeschi, è cosa davvero molto grave. E questo gioco, purtroppo, noi cattolici italici d’antichissimo pelo, lo abbiamo capito; e dopo averlo capito abbiamo cominciato a soffrirne nel corso di questo pontificato nato all’insegna della misericordia a suon di sfottò e di bastonate. Ma d’ altronde, le bastonate date in nome di una non meglio precisata misericordia, ricordano in tutto e per tutto i manganelli dei vecchi comunisti, che erano manganelli rigorosamente buoni, non facevano male, tutt’altro! Erano solo i manganelli dei fascisti ad essere cattivi e criminali, i manganelli dei comunisti erano invece più tonificanti, rilassanti e salutari dei massaggi tailandesi. Nell’anno del Giubileo del 2000, il “passetto” è stato restaurato e messo di nuovo in funzione; e dietro prenotazione è possibile visitarlo e percorrerlo. Chissà se un giorno non sarà nuovamente usato per il motivo per il quale fu costruito?

Dall’Isola di Patmos, 13 dicembre 2016
Santa Lucia Vergine e Martire 



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